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“Nuièter ch’ì parlema ancùra in dialèt” decima puntata in onda il venerdì alle ore 17,30 ASCOLTA I FILE IN ANTEPRIMA

26 Aprile 2013

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Savino Rabotti negli studi di Radionova

Savino Rabotti negli studi di Radionova

SEDICESIMA  SETTIMANA

14 – 20 Aprile  

 

Settimana di ordinaria amministrazione questa. E anche in passato non era un periodo di lavoro intenso, ma, comunque, bisognava già darsi da fare per mantenere il passo con la stagione. Per noi ragazzi era tempo di imparare dove gli uccelli facevano il nido. Più per curiosità che per interesse perché tanto quegli uccellini non li avremmo mangiati. E il nostro piccolo mondo offriva solo fiori. Nessun frutto da piluccare di nascosto. Avevamo però la possibilità di costruirci zufoli e pive con le cortecce dei salici o dei castagni.

 

PROVERBI

 

Questa settimana non abbiamo proverbi relativi al tempo e allora ne vedremo alcuni legati al comportamento. Per combattere l’egoismo ci dicevano:

 

A dâr e artör

a va la bìsa al cör.

 

Se regali un oggetto poi lo richiedi indietro il tuo cuore è divorato da una serpe. Che si chiami invidia, rancore, ottusità poco cambia.

Alle malelingue si suggeriva:

Al cià-cri gli ên cmé ‘l srêš:

t’in sêrch úna, t’n’in cat dêš.

E sulla sorte umana?

Fîn ch’i’ gh’èma i dênt in bùca

a n’ se sà che môrta a s’ tùca.

 

AL BÊN

PREGHIERA DELLA SERA

Dialetto di Sassuolo

Sgnòur, a v’aringràsi

ch’ a mi dê una bòuna giurnêda:

dêm anca una bòuna nòt,

ch’i pòsa vìvre in gràsia vostra.

Sgnòur, dêm la vostra santa

benedäta benedisiòun.

 

FILASTROCCA

UNA STRANA RICETTA

 

Mi’ pa’ e mi’ màma i’ gh’îven la rùgna.

Per fâsla gratâr i’ andêvne a Bulùgna.

E là i’ gh’ l’unšîvi cun l’òli d’urtîga,

ch’ l’é un òli ch’al psîga,

ch’al fa sternudîr.

 

 

 

 

INDOVINELLO

UN QUIZ GEOGRAFICO

 

Trē  sitâ in Lumbardìa:

prìma Milân e pu’ dop Pavia.

Me i’ t’al dìgh, ma te t’ n’al sē

COM’ a s’ ciàma la têrsa sitē

(Como).

POESIA

CL’ÂTRA MÀMA

di Savino Rabotti

Quânti cêši, uratòri e majstâ

a partîr dal Cerêto fîn  al Po!

Adrê a cla via, in quân-c i’ gh’ ên  pasâ!

Un sìgn d’la crûš, un’Ave, e avanti un pô,

tra un suspîr e ‘na câlda invucasiûn

pr’arivâr sân a la destinasiûn.

 

E chî che, int la turmênta, i’ s’ên šmarî

ris-ciànd la vìta, apèna stâ al sicûr,

i’ hân mìs al Tu’ ritràt atàca a un mûr

per dîr: “Me i’ êra môrt, e s’i’ sûn chì,

s’i’ n’ sûn mia fnî a marsîr int ‘na slavîna,

l’é per l’aiút ch’ m’ha dâ la Madunîna”.

 

Quân-c i nòm ch’i’ T’hân dâ dai mûnt al piân:

Madunina d’ la Prêda, dal Sucûrs,

d’la Batàglia, d’la Giâra, fîn dal pân

e tân-c âter, per cunclúder chì ‘l discûrs,

perché ugnûn  al T’ invôca quànd l’ha bšùgna

sênsa pruvâr pajûra né vergùgna!

 

Quand la gênta l’andêva ancùra a pê,

la s’ sedîva sûra a un sàs d’na funtanina

s’ l’îva bšùgna d’arpôš, o fàm, o sê,

indù’ a gh’êra un ritràt d’ la Madunina

prûnt a dîr: Dài, curà-g, che me i’ t’ vöi bên!

Àbi fidúcia, e pu’ mantînte srên”!

 

S’a gh’é un prublèma ch’al te stròsa ‘l cör,

a n’ gh’é gnân bšúgna ad dîl cun dal parôl:

l’é asê incrušâr un sguârd, e’l tu’ dulûr

piân piân ‘l sparìsa. T’a ‘n te sênt pu’ sûl!

Perché la t’ dîš: Curà-g, che me i’ t’ vöi bên!

E se t’ gh’ê bsúgna i’ t’a-staró lì všên”!

 

Quante chiese, oratori e maestà a partir dal Cerreto fino al Po! Su quella via quanti son passati! Un segno di croce, un’Ave, e avanti un po’,tra un sospiro e una calda invocazione per giunger sani alla destinazione. E quelli che nella tormenta si sono smarriti a rischio della vita, appena al sicuro han fissato il Tuo ritratto sopra un muro per dire: “Ero già morto, e se son qui se non sono finito a marcire dentro una slavina è per l’aiuto che m’ha dato la Madonnina”! Quanti  titoli Ti han dato dal monte al piano: Madonna della Pietra, del Soccorso, della Battaglia, della Ghiara, perfino del pane, e tanti altri, per finire qui il discorso, perché T’invoca ognun quando ha bisogno senza provar paura né vergogna. Quando la gente camminava a piedi, sedeva su un sasso presso una fontana, se aveva bisogno di riposo, o aveva fame o sete, ove c’era un ritratto della Madonnina pronto a dirti: “Coraggio, io ti voglio bene! Abbi fiducia e mantieniti sereno”! Se c’è  un problema che ti soffoca il cuore non occorre spiegarlo con parole: basta incrociar lo sguardo, e il tuo dolore pian pian sparisce. E non ti senti solo! Perché lei ti dice: “Dài! Ti voglio bene! E se hai bisogno ti starò vicino ”!

 

USANZE

IL GRANDE BUCATO

 

Più o meno vicino a Pasqua ogni anno c’era anche il bucato di primavera da fare. Appena il tempo prometteva di restare bello per alcuni giorni compariva, nell’aia, la Söja, il mastello per i capi da passare sotto lisciva. Veniva riempita con tutti i capi, poi, sopra tutto il bucato, veniva posto un telo che coprisse tutta la bocca del mastello. Su di esso veniva stesa della cenere ben setacciata. Intanto in casa o fuori col focone era stato portato a bollitura un grande  paiolo d’acqua. Questa veniva versata sopra la cenere e lasciata penetrare lentamente nel bucato e lasciata a lavorare. Passato il tempo canonico, (a deciderlo era la Rešdûra), si toglieva il tappo e si lasciava uscire la lisciva. Alcuni la raccoglievano per altri usi. I capi di biancheria venivano collocati entro panieri e portati dove era possibile sciacquare il bucato, normalmente una sorgente d’acqua utilizzata come abbeveratoio per le mucche. E qui il tutto veniva lavato, strizzato, stiracchiato perché non conservasse le pieghe, poi rimesso nei panieri e riportato a casa. Sui fili tesi tra la casa e il fienile o sulle siepi si stendeva la roba ad asciugare. Quello sbandieramento di stoffe dava una sensazione di pulizia e di allegria.

 

SAGGEZZA ANTICA

HOMO SINE PECUNIA IMAGO MORTIS

 

Un uomo senza soldi  è il ritratto della morte. Già. Purtroppo è questo il parametro più usuale per valutare una persona. Solo quando è troppo tardi comprendiamo che i valori veri sono altri.

 

SUPERSTIZIONI

Cosa non si fa per vincolare la persona amata e averla tutta per sé! In alcune località della provincia c’era questa usanza: il giorno di Santa Agnese, (21 Gennaio), allo scoccare della mezzanotte, giovani e ragazze si ritrovavano e ognuno di essi gettava a terra una manciata di grano chiedendo alla Santa di potere trovare l’anima gemella. Appena tornati a casa dovevano andare subito davanti a uno specchio. Se la Santa aveva esaudito la preghiera nello specchio compariva il volto della persona amata.

[M. Mazzaperlini – LA SUPERSTIZIONE NEL REGGIANO – Bizzocchi – 2001- pg. 38].

 

SATIRE

Esiste un frammento di un componimento anonimo ove si parla di una iniziativa lodevole a favore degli agricoltori. Siamo nel boom dell’impero, quindi mettiamo un bel po’ di tara legata alla propaganda, ma quella iniziativa davvero era una bella idea. L’unico guaio fu che, al termine della guerra, l’Agraria non seppe adeguarsi ai tempi. Ma (sospetto non infondato) qualcosa di storto nella gestione ci deve essere stato. Il frammento si intitola:

 

LA CASSA AGRARIA DI CIANO

 

Se alcuni vorran leggere

queste meschine carte,

perdonino questi versi

scritti con misera arte.

 

Ventidue anni or sono

fondata in Ciano d’Enza,

nacque così di botto,

con grande compiacenza

 

l’”AGRARIA”, e andava bene

per darvene un’idea,

finché in sé riunivasi

dei soci l’assemblea.

 

……………………

Onor dei contadini,

ma forse questa cassa

tendeva ad altri fini.

 

Volete voi provèdere (sic)

Zolfo, solfato, rame,

falci, [rastrelli, forbici],

olio, sale catrame,

 

filo di ferro, spazzole,

o tappi da bottiglia

scelti [per il buon] vino?

È tutto una meraviglia.

 

Ma venne poi la guerra:

tutti andarono ai fronti

per fare il suo dovere

sui guerreggianti monti.

 

Finì la guerra. Tornano

Tutti al proprio paese,

ma più di cassa agraria

nessun parlar più intese,

 

e tutti mormoravano,

nessun però si è mosso

temendo d’esser morso

toccando un can si grosso.

 

 

 

CURIOSITÀ

QUESTO SI CHE È UNO “ZAMPONE”

Chi resisterebbe ad un bel zampetto di maiale, cucinato a dovere, in una sera di neve?

Era una prelibatezza ai tempi della mia infanzia. Oltre a gustare la carne grassa, per noi ragazzi c’era poi la possibilità di avere uno degli ossi per fare il frullo. Di questo parleremo un’altra volta. Oggi preferisco ricordare uno zampetto particolare, da Guinnes dei primati. Lo hanno realizzato a Castelnuovo Rangone, nel modenese, nel 2011. Oggi di sicuro lo avranno già superato. Quell’anno lo zampone pesava 940 chili, e per cuocerlo hanno costruito apposta una zamponiera inox lunga 4 metri.

 

 

MEDICINA EMPIRICA

EQUISETO

 

L’abbiamo incontrata tutti, lungo i fossi o nelle zone umide. Normalmente la chiamano Coda di cavallo. Qualcuno la chiama anche pane degli asini. Questione di ranghi. Ed è anche bella a vedersi, nella sua architettura geometrica. Ma questa pianticella ha prerogative non indifferenti. È ricca di potassio e silicio. Aiuta la formazione del tessuto connettivo, ed ha proprietà mineralizzanti, diuretiche, cicatrizzanti, emostatiche e detergenti. È indicato per le forme di astenia, per le donne incinte e per quelle in menopausa. Contrasta l’osteoporosi, aiuta le funzioni renali. In passato si usava per pulire pentole e ramaioli grazie allo elevato contenuto di silice.

ERBE, PIANTE E FRUTTA ANTICA DEL COMUNE DI CARPINETI – Scuola media – 2002/2003

 

GIOCHI

AL SEBIÖL

Fabbricarsi uno zufolo non era poi tanto difficile. Quando comparivano le prime gemme significava che la linfa stava circolando bene all’interno dei rami.   Si sceglieva allora un ramo di castagno dello spessore di un dito o poco più, che presentasse un tratto di 20 o 30 cm senza gemme, il più rettilineo possibile. Si poteva usare anche il salice, ma il castagno era più malleabile e resistente. Con delicatezza si staccava la buccia. Con una mano si teneva fermo il legnetto e con l’altra gli si imprimeva una pressione in senso rotatorio fino a quando la scorza si staccava, curando di non lesionarla. Prima di estrarre la parte legnosa con un coltello bene arrotato si praticavano i fori necessari. Il primo e più difficile era quello che fungeva da ancia. Oltre al pertugio bisognava anche assottigliare la parte vicina al foro in modo che potesse vibrare per produrre il suono. Dalla parte più grossa del legno estratto se ne prendeva un pezzetto e lo si sagomava. Serviva da modulatore del fiato, Doveva essere molto scavato verso l’esterno. Poi lo si collocava nella parte larga della corteccia fino al foro-ancia. Altri fori potevano essere praticati lungo il corpo dello zufolo. Si suonava come il clarinetto.

 

 

DICIASSETTESIMA  SETTIMANA

21 – 28 Aprile  

 

Questa settimana ha una ricorrenza importante: la celebrazione della liberazione. Accadde il 25 Aprile del 1945. All’epoca non capivo la necessità delle guerre, delle lotte fra gente dello stesso paese. Sentii comunque che quel giorno era importante. Era come svegliarsi da un brutto sogno. Per noi scolari le lezioni si erano tenute anche durante la guerra grazie alla disponibilità di una maestrina nata in questo territorio e appena diplomata, che ci seguiva senza sapere se le sue lezioni sarebbero state considerate valide e pagate. Infatti l’anno fu dichiarato nullo. Troppe le assenze dovute ai rischi di guerra. E noi dovemmo ripetere la classe.

Lo stesso giorno è la festa di San Marco, l’evangelista patrono di Venezia. Non era festa di precetto ma quel giorno si facevano le rogazioni, cioè si partiva dalla chiesa parrocchiale o da un oratorio recitando le litanie dei santi e si raggiungeva un punto dal quale si poteva vedere più campi possibili e da lì il parroco impartiva la benedizione verso i quattro punti cardinali (ai quàter vênt) a protezione dei raccolti e contro i temporali.

 

PROVERBI

Il canto del cuculo è la testimonianza che siamo in primavera, quando si risvegliano i cuori. Allora le ragazze da marito interrogavano così il cuculo:

 

Cúch, bel cúch da la parúca in cò,

sàpme dîr quân-c àn da stâr i’ gh’ho.

Cúch, bel cúch da la parúca bîša,

sàpme dîr quân-c àn da stâr i’ gh’ho

prìma ch’i’ m’ marîda.

 

Un’alternativa la si aveva il giorno di Pasquetta, lunedì di Pasqua:

 

Pàsqua, Pasquèta la vên ‘na volta a l’àn.

Papà, catarôja marî st’àn?

 

Molto meno poetici i romagnoli:

 

Còch, bel còch d’ Abrîl,

quânt òja préma d’ murîr?

 

Ma torniamo per un attimo alla campagna perché anche questo è un periodo interessante per il grano e la vite:

Per San Marco

il grano fa il nodo

la vite mette l’arco.

 

Quando è San Giorgio

semina l’orzo.

 

AL BÊN

PÀTER NÒSTER A LA RUMĀNA

 

Sembra si tratti di una preghiera presente in Roma poi diffusa ovunque dai pellegrini. Purtroppo il testo non è completo.

Pàter nòstr’ a la rumâna,

benedèt chî ch’a l’impâra.

A l’impâra Sân Pelegrîn

ch’a l’insìgna a Sân Martîn.

Sân Martîn l’êra andâ in cêl

…………………………………….

E qui c’è il vuoto dove, probabilmente, si fissavano le preghiere da recitare per i vivi e in suffragio dei morti:

Trî pr’ i vîv e trî pr’ i môrt

trî pr’al nòster Salvatûr.

 

Qualche buontempone ha travisato questa preghiera con uno scherzo:

 

Pàter nòstr’ a la rumâna,

quàter pégri sênsa lana,

quàter pégri sênsa cùa:

tîrtli adrê fin a ca’ tua.

 

FILASTROCCA

 LA VÈCIA PITÒCA

 

La vècia pitòca

la mûnta in caròsa,

la sûna ‘l viulîn,

la bàla in scapîn,

la fà ‘l tajadèl,

la pìsta l’ušèl,

la bèva ‘l cucûn,

la dîš ch’ l’è csì bûn.

 

INDOVINELLO

A gh’é un maciûn

ch’al púsa, ma ‘l sà d’ bûn.

D’ föra l’é punšèt

ad dênter l’é rusèt;

ai vè-c a gh’ piâš grànd

ai šûvne strèt.

(Il roseto).

C’è un cespuglio molto odoroso, ma sa di buono. All’esterno punge, dentro è rossiccio. Ai vecchi piace largo, ai giovani stretto.

 

POESIA

AL  GIGÂNT BÛN

di Savino Rabotti

 

Lasú, luntân, ‘ndu’ a fnìs la tèra e i mûnt,

disegnâ da ‘na mân frànca e delicâda,

s’ vèd la sàguma  bên delineâda

d’un òm šacâ, ch’ al sìgna l’urišûnt.

 

Chî ‘l le ciàma Gigânt e chi L’òm môrt,

chî ‘l Gigânt bûn, un quercadûn l’Amîgh.

Guardàndl’a t’é d’ajîš ch’al sia asôrt

a pensâr al pasâ e al sö fadîgh.

 

A dîš la gênta che int i têmp luntân

a gh’era, vers la stèta d’l’Apenîn,

dû o trî brigânt prûnt a druvâr al mân

se un disgrasiâ ‘l pasêva lì d’avšîn.

 

Ma un bel dì a rivè ste gigânt bûn,

ch’ l’ascultè ‘l lamentêli di pastûr,

e pu’ s’ deciš a dar una lesiûn

a chi brigânt cunvînt d’êsr’al sicûr.

 

L’êra dventâ l’amîgh d’ tú-c i paišân:

chî gh’ cuntêva i sö guài, chî ghe šmandêva

un cunsìli o un piašêr, chî ghe slunghêva

un furmài frèsch e chî ‘na mìca d’ pân.

 

Ma pertròp a rivè l’ûra fatâl.

Quànd al capì  s’ fè mèter lungh destêš

sûra al crinâl, a difêša dal paêš,

cuntra i lâdre, i bušiard, i criminâl.

 

Ma gh’ despiasîva un pô, e, int al pu’ bèl,

‘na lùšga la scapé, câlda e distràta;

dal Cúšna la rivè fîn a la Gata:

l’è cul turênt ch’i ciàmne ancùra S-cèl.

 

La srà ‘na fôla! Ma s’ l’arturnèsa adès

a difèndse da la gênta malandrîna,

d’ chi gigânt bûn, ch’i n’ pênsi a l’interèsi,

a gh’ne vrê perlumêno ‘na trentina.

Lassù, lontano, ove terminano terra e monti, disegnato da una mano sicura e delicata, si scorge la sagoma ben delineata di un uomo sdraiato, che segna l’orizzonte. Chi lo chiama Gigante, chi L’uomo morto, chi il Gigante buono, qualcuno l’Amico. Osservandolo ti sembra che sia assorto a pensare al passato e alle proprie fatiche. Dice la gente che nei tempi lontani c’erano, presso il valico dell’Appennino, due o tre briganti, pronti a usar le mani se un disgraziato passava lì vicino! Ma un bel giorno giunse questo gigante buono che ascoltò le lamentele dei pastori, poi decise di dare una lezione a quei briganti che si ritenevano al sicuro. Era diventato l’amico di tutti i paesani, chi gli confidava i propri guai, chi gli chiedeva un consiglio o un favore, chi gli allungava un formaggio fresco, chi un filone di pane. Ma purtroppo giunse l’ora fatale. Quando se ne rese conto si fece distendere sul crinale, a difesa del paese contro i ladri, i bugiardi, i criminali.  Ma gli dispiaceva un poco, e, sul più bello, una lacrima gli sfuggì, calda e distratta; dal Cusna scese giù fino alla Gatta: è il torrente che ha nome Secchiello. Sarà una favola! Ma se ritornasse adesso a difenderci dalla gente malandrina, di giganti buoni, che non pensano agli interessi, ne occorrerebbe almeno una trentina.

 

 

 

 

 

USANZE

TOSATURA DELLE PECORE

Come per tutte le cose importanti anche per la tosatura vi era una preparazione e un rituale caratteristico. La tosatura si faceva nei primi giorni di Maggio. Qualche giorno prima si andava al mulino con tutte le pecore. Laggiù era possibile lavarle, una ad una, perché nella gora (al butàs) si poteva sfruttare l’acqua che poi sarebbe servita per macinare. E lì occorreva la collaborazione di tutti. Gli adulti scendevano in acqua con una pecora. Uno teneva immobile l’animale e l’altro gli strofinava la lana con ogni mezzo per pulirla. Finito il lavaggio la pecora veniva portata sotto un albero in mezzo ad un prato perché asciugasse senza andare sulla sabbia o sulla polvere della strada. Terminata la faticaccia ci si permetteva una rinfrescatina nell’acqua, poi si riuniva il minuscolo gregge e i ragazzi e si tornava a casa. Una bella controllata allo stalletto ove la lettiera doveva essere nuova, pulita, per non vanificare tutto il lavoro. Il giorno dopo le pecore venivano portate nell’aia e, una alla volta, immobilizzate, collocate sopra un tavolaccio e tosate. Quelle anziane avevano già l’esperienza degli anni passati e stavano abbastanza tranquille. Le giovani invece non accettavano la costrizione e si agitavano e ciò provocava loro dei tagli con le forbici. Alla fine non le riconoscevi più quando tentavano di riprendere la vita normale, tutte spelacchiate, con solo un ciuffo sulla testa e uno nella coda.

 

SAGGEZZA ANTICA

IN VINO VÈRITAS

 

È opinione diffusa che il vino, assunto in quantità esagerata, spinga le persone a parlare di tutto e  a confidare cose che dovrebbero restare segrete. Ce lo ricorda anche il Manzoni quando Renzo, sfuggito alle guardie, si ferma all’osteria e beve un po’ troppo.

 

SUPERSTIZIONI

MILZA DI MAIALE

Mai mangiare la milza di maiale. Si correva il rischio di cadere dall’albero mentre si potava. Allora la massaia, quando preparava i fegatini, in quelli di fegato metteva uno stuzzicadenti, in quelli di milza no. Per distinguerli.

 

SATIRE

Su una pubblicazione che è uscita per un paio d’anni in occasione della fiera di Castelnovo a cura di Giovanelli ho trovato questo testo di autore ignoto.

 

LA FUNICOLARE DI LAMA GONFIA

Un impresàri ad la Casîna

l’ha mìs sù furnâša a Flîna

 

e l’ha impiantâ un furnašûn:

cup, quadrê, lambrè-c, matûn.

 

I’ sèma sicûr che lû e’ vendrà

fintânt che lû e’ gh’ n’arà,

 

sparpagnâ int la campàgna

vers Cherpnêda e vêrs Culàgna.

 

Ma e’ s’ lamênta che l’àn pasâ

gnân un sold lû l’ha sparâ;

 

ad tân-c matûn che lû l’ha còt

e’ ‘l n’ha sparâ gnânch un bajòch,

 

che sultânt a pagâr Ciúca

a gh’ n’é andâ ‘na bèla múcia.

 

E stra l’aqua i e’ sabiûn

pu’ d’ quarânta biglietûn.

 

E lû st’àn, per risparmiâr,

l’ha mìs sú ‘na funiculâr.

 

I’ han piantâ suquanti clûn

cun inséma di filûn,

 

e pu’ tàcghe e’ mutûr d’ na baddūra,

ma gnân per quest lê la n’ lavūra.

 

A gh’é sta per du’ trî dì

anch cul Frem ch’a sta tradlì

 

pôch luntân da la Baciòca,

ma gnân lû e’ n’ gh’ha fàt ‘na pòta.

 

L’inšignêr ch’ l’ha dâ e’ diségn

s’ ved ch’ al gh’îva pôch inšégn

 

fâr mèter sú ‘na funiculâr

e po’ a n’ la veder lavurâr.

CURIOSITÀ

PETRARCA E I “POCO EDUCATI

 

Dino Fracassi mi ha ricordato un episodio accaduto al Petrarca nel periodo in cui risiedeva a Selvapiana, rimasto nella memoria popolare.

Un giorno si era recato a Parma. Al ritorno fu avvicinato da tre signori che lo avevano riconosciuto e, per attaccare bottone uno gli chiese da dove veniva, il secondo domandò quanta acqua c’era nell’Enza e il terzo salutò semplicemente con un Buon giorno. Solo che i tre parlarono tutti contemporaneamente. La cosa non fu gradita al poeta, che comunque rispose loro allo stesso modo: Da Parma fino al culo buon giorno.

 

MEDICINA EMPIRICA

LA PIANTAGGINE

È un’erba molto comune, e la sua utilità non sempre è risaputa. Gli infusi di tale erba servono nelle malattie respiratorie dovute ad allergie, specialmente per l’asma, per la bronchite, per il raffreddore da fieno. L’infuso può essere usato come lozione idratante per la pelle. Può servire per guarire mal di denti e diarrea, e, come uso esterno, per le ferite, le punture di insetti, le piaghe.

Noi invece usavamo gli steli per costruire dei microscopici scrannini.

 

GIOCHI

UNA PIVA… PRIMITIVA!

 

Due segmenti presi da un pollone giovane, di quelli che il potatore ha individuato come getti inutili e dannosi per la vite, anche se sembrano i più belli. Col crescere avrebbero le sottratto energie senza dare, in contropartita, grappoli turgidi di mosto. Giusto quindi eliminarli! L’occhio esperto però individua in essi la possibilità di ricavarne qualche utilità, anche se precaria e improduttiva. I due segmenti, recisi tra un occhio e l’altro (il tratto tra una gemma e l’altra), approssimativamente dieci centimetri, venivano levigati su un lato in maniera da farli combaciare. Dalla corteccia esterna, non ancora ruvida,  si prendeva un tratto lungo quanto i segmenti e largo pochi millimetri, lo si inseriva tra una faccia e l’altra, lo si fissava bene alle due estremità [chi disponeva del refe bene, altrimenti ci si arrangiava con i prodotti reperibili in natura, come steli d’erba, rametti o scorze fresche di salice] e lo si collaudava appoggiando le labbra nella parte centrale dell’oggetto ottenuto,  emettendo poi un forte  getto di fiato. Se la linguetta interna era stata costruita ad arte si doveva sentire un suono tollerabile dall’orecchio umano. L’esperienza e l’intuizione del suonatore avrebbero poi permesso di usare la piva come strumento d’accompagnamento ad improvvisati cori oppure di prodursi in assoli comunque divertenti.

 

 


Opinione dei lettori

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