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“Nuièter ch’ì parlema ancùra in dialèt” Settima puntata in onda il venerdì alle ore 17,30 ASCOLTA I FILE IN ANTEPRIMA

28 Marzo 2013

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Normanna e Savino

Normanna e Savino

DODICESIMA SETTIMANA

18– 24 Marzo 2013

 

Questa settimana ci propone due eventi di rilievo.

Il 19 marzo è la festa di San Giuseppe, il protettore di tutti i papà. Nella chiesa cattolica la festa è stata introdotta nel 1968. Al momento però non tutti gli stati la celebrano il 19 marzo. In alcuni di essi si festeggia a giugno. L’origine della festa è antichissima. Esiste una piastra babilonese, d’argilla, di circa 4.000 anni fa. Su di essa Elmesu augura al padre salute e longevità. Nel mondo moderno la prima notizia sull’argomento risale al 1909. La Signora Sonora Smart Dodd volle gratificare il padre che l’aveva allevata con premura dopo la morte della madre. Un’altra informazione ci porta al 1936, in Olanda. Ma in quello stato i papà facevano una gita, in giugno, riservata ai soli uomini.

 

La seconda data importante? Il 21 Marzo, primo giorno di Primavera. Astrologicamente l’Equinozio quest’anno avviene alle 12,01 del 20 marzo, quando il sole entra in Ariete. Ma il primo vero giorno di primavera è il 21 marzo. Fino alla riforma della liturgia voluta dal Vaticano II° il 21 era anche la festa di San Benedetto, ricordato per la coincidenza con l’inizio della bella stagione. Oggi la festa del santo è stata spostata all’11 luglio. Ma i proverbi che lo vedono protagonista sopravvivono.

 

PROVERBI

Per costatare l’inizio vero della primavera si diceva:

 

San Benedetto,

la rondine sotto il tetto.

 

In questo periodo si avvicinava anche la Pasqua, con tanti giorni festivi. È vero che l’Epifania portava via tutte le feste, ma è altrettanto vero che

 

quand a rîva San Bendèt

a n’in pôrta un bel sachèt,

 

che sono le feste Pasquali. E c’è un richiamo anche alla durata della luce diurna:

 

Mârs, Marsòt

tânt al dì cme la not.

 

Quale preoccupazione maggiore per il contadino se non il buon esito del raccolto? Ma anche marzo ci può mettere lo zampino:

 

Nèbia d’ Mârs la pôrta dàn;

cùla d’Avrîl la töš al pân.

 

A proposito di marzo pazzerello, in toscana dicono: Marzo muta sette berette al giorno.

… e per le ragazzine?

Marzo tinge,

Aprile dipinge,

Maggio fa belle le figliole,

e Giugno se le gode al sole.

Nessun commento! Piuttosto un consiglio. Di altro genere:

 

Bšùgna fâr ecunumìa fîn che ‘l sàch l’é piên!

 

AL BÊN

           DOPO LA CONFESSIONE

                                                                       Dintorni di Sassuolo

Oggi, Signor, vi vedo in croce stär;

a sòun pcadòur e n’ va sò mia adorär.

I mê pchê a i ho fat,

e a i ho dét al confsòur

e a n’al sò s’a Vi abia dét.

Vi prego, buon Gesù, con gran prudenza

ch’a n’ m’ardušîdi a la vêra penitéinsa.

 

La penitéinsa ch’a m’ darî

Gesù Crìst, a me  i’ perdunarî.

 

A m’ perdunarî in colpa e in pêna

cùma a fèste a Santa Maria Maddalena.

 

Oggi, Signore vi vedo appeso alla croce; sono peccatore e non so adorarVi. I miei peccati li ho commessi, al confessore li ho detti; non so se ve lo abbia detto. Vi prego mio buon Gesù, con gran prudenza, non condannatemi alla vera penitenza; la penitenza che darete a me, Gesù, sarà di perdonarmi. Mi perdonerete colpa e pena come faceste con Santa Maria Maddalena.

 

FILASTROCCA

LA SETTIMANA DELLA FILATRICE

 

Al Lundì l’ha pêrs la rùca,

al Martedì la n’ fa ‘ngùta,

la la serca al Mercurdì,

la la càta al giuvedì,

al Venerdì l’inrùca la lana,

al Sabde la s’ destrîga la testa

perché Dmèndga l’é festa.

 

INDOVINELLO

A gh’é un prâ piên d’ vàchi rùsi: (Le braci nel forno)

a n’in rîva una nîgra ch’a li pâra via túti.

                                     (Lo strofinaccio per pulire il forno).

 

POESIA

LA PRIMAVÊRA

di Savino Rabotti

 

La Primavêra? L’era ‘na sgnurîna

bèla, fresca, e cun tú-c i cavî biùnd.

E quand la s’ prešentêva vêrs matîna,

s’ fermêva, cme d’incânt, tút quânt al mund.

 

Raghés, vè-c e šuvnòt i s’argiulîvi

perché l’êra pu’ càrga che ‘na mòla:

e,  stàndghe všên, piân piân i’ arinšuvnîvi

anch i vè-c da la cârna túta fròla.

 

Gli êri ventâdi cun ‘l prufúm dal viôli,

tút un cambiâr tra mil e mil culûr;

l’êra cme pasegiâr in mèš ai fiûr

cun i’ ò-c a-spalancâ, sensa parôli.

 

Adìo, biundîna, urmài la tu’ stagiûn

la m’ha fat arivâr a la stasiûn

‘ndu’ a fnìs i’ insùni, e un treno a m’ porta inâns

càrghe d’ ricôrd piên d’ pûra, piên d’avâns!

 

La Primavera? Era una ragazzina bella, fresca, e con tutti i capelli biondi. E quando si presentava verso levante si fermava, come d’incanto, tutto il mondo. Ragazzi, vecchi e giovanotti ringalluzzivano perché era più carica di vita di una molla: e standole vicino pian pianino ringiovanivano anche i vecchia dalla carne frolla.  Erano ventate col profumo delle viole, tutto un cangiare tra mille e mille colori; era come passeggiare tra i fiori ad occhi inebriati, senza parole. Addio, biondina, ormai la tua stagione mi ha condotto fino alla stazione ove muoiono i sogni, e un treno mi porta avanti, carico di ricordi polverosi, carico di avanzi.

 

USANZE

LA DOMENICA DELLE PALME

 

La Domenica delle Palme per noi era semplicemente al dì d’l’ulîva. Quel giorno le mamme e i bambini piccoli andavano alla prima messa, mentre gli adulti si recavano a quella solenne, seguita dalla processione coi rami d’ulivo. Se la processione ricordava l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, per la nostra gente quei rametti diventavano un talismano da collocare sulle croci da mettere nei campi e da conservare per allontanare i temporali estivi. Altro particolare: possibilmente l’ulivo benedetto andava conservato con riverenza, appeso ad una parete, fino all’anno successivo se non veniva utilizzato. E con l’arrivo del nuovo il vecchio veniva bruciato proprio per non profanarlo. E per l’occasione si diceva:

 

L’uliva benedèta

la brûša vērda e sèca.

 

Ma col tepore della primavera anche il sangue cominciava a riscaldarsi. I giovani allora si cercavano, facevano i primi approcci per cercare l’anima gemella. Ce lo ricordano questi versi:

La domenica dell’ulivo

ogni uccello fa il suo nido,

ma se il merlo non canterà

nessun nido si farà.

 

SAGGEZZA ANTICA

EXCUSATIO NON PETÌTA

ACCUSATIO MANIFESTA.

 

In italiano suona: Una scusa non richiesta è un’accusa manifesta. E a chi non desta sospetto la fretta nel trovare una scusante al proprio operato? Il fatto fa drizzare le orecchie e sospettare che sotto, sotto, gatta ci covi! Anche i detectives sfruttano questo stato psicologico nell’indagine su fatti criminosi.

 

SUPERSTIZIONI

Parlare di superstizione quando ci si interessa all’amore sembra assurdo. Eppure in passato qualcosa circolava anche fra gli innamorati. Paura di perdere il partner? Gelosia? Forse l’una e l’altra assieme.  Ascoltate questa pratica descritta da Agnese Castellini: “La domenica delle Palme i giovani del paese, a coppie, prendevano una fogliolina di ulivo, la spezzavano in due e se la dividevano, avendo cura di portarla, in seguito, sempre con sé. Durante la settimana, nelle ore e nei momenti più impensati, uno dei due usciva all’improvviso gridando: “Verde”! L’altro doveva mostrare la sua metà per non essere eliminato”.

 

SATIRE

Ritorniamo per un attimo su Marchèt da la Cêša. Quanto allo stile le poesie di Marco forse non raggiungono la perfezione. L’autore pensa più a trasmettere i concetti che a seguire le regole rigide della metrica. Tuttavia i suoi testi sono accattivanti e non si smetterebbe mai di leggerli. Marco, nella seconda guerra, è stato prigioniero in Germania, assieme ad altri due felinesi.

Per inviare notizie senza che la censura se ne accorga inventa uno stratagemma: scrive alla nipotina così:

Carissima nipotina,

ti ricordo sera e mattina.

Ma vuoi tu sapere come si sta?

Pulci e pidocchi in quantità.

Dimmi a Genoveffa che il suo Ministro (il marito)

riguardo alle sbornie sta sempre diritto.

Dimmi alla Cleofe che il suo Pipone (Giuseppe)

riguardo alle smanie lui sembra un capone.

La nostra famiglia è composta di tanti:

Padre, Figliolo e lo Spirito Santo:

ecco, questi tre (felinesi) sono figli di Cristo:

Olmi Giuseppe, Marco, il Ministro.

CURIOSITÀ

L’INGIAR  DAL  DIÂVLE

 

E chi se lo ricorda più? Passiamo in macchina, veloci, preoccupati di arrivare in tempo prima che la minestra scuocia, senza concederci un attimo di pazienza e guardarci intorno, senza sapere che proprio lì, dietro quel cucuzzolo ci sono state due, forse tre battaglie cruenti. Di manufatti aggiudicati al diavolo ce ne sono in ogni zona dell’Appennino e delle Alpi, e ancor più all’estero. Quasi sempre ad arrogarsi il titolo sono dei monoliti a forma di ponte, o dei manufatti a schiena d’asino frequenti in montagna. I primi sono lì. Non si sa chi ve li abbia portati e con quale scopo. Ci si dimentica che anche il nostro territorio un tempo era sotto immensi ghiacciai e che questi, impercettibilmente quanto costantemente, scivolavano a valle levigando i grossi macigni di arenaria, scavando il terreno che stava loro intorno, producendo per noi quelle meraviglie della natura che ancora oggi possiamo ammirare.

L’oggetto del nostro discorso è più semplice. Nel tratto di strada che da Rosano sale a Santo Stefano, nella località chiamata Al Ciàstri (o Al Ciàster) la vecchia carraia passava su un falsopiano di pietra, un piano inclinato lungo un centinaio di metri. Era pietra arenaria e di pessima qualità, non consigliabile per fare case, ma idonea come fondo stradale. Parlo di prima che fosse costruita l’attuale strada asfaltata. Quel falsopiano partiva da ove ora si trova la cappella di Boni e saliva fino sul cucuzzolo, proprio lassù, sopra il greppo ingabbiato con una rete, e dove, di tanto in tanto si affacciano i cavalli di Gilioli ad osservare le macchine che passano lì sotto.

I più curiosi mi chiederanno cosa c’entri il diavolo. Immaginate un muro compatto, levigato, proporzionato alle misure della carraia, steso lì come un tappeto, con qualche bel lastrone ma con tanti sassi disposti ad arte, come si trattasse di un’opera gigantesca prodotta dall’uomo. E immaginate anche che le persone sapevano benissimo che le forze umane non bastavano a produrre quell’opera. E allora a chi attribuirla? Oggi se ne scorge qualche residuato sul fianco della strada. Poca roba, ma sufficiente per immaginare come era  lastronata la carraia.

 

MEDICINA EMPIRICA

IL TARASSACO

Noi lo conoscevamo come piscialetto, ma solo quando era già fiorito. Prima rientrava nella grande famiglia dei riccioni, da raccogliere tra Febbraio e Pasqua, ottimi in insalata con le uova sode. Ma forse ai miei tempi si era già persa la conoscenza dei benefici che contiene quest’erba. Ottimo anche cotto nei minestroni, nelle frittate, ha qualità diuretiche, lassative, digestive, toniche e di drenaggio sulla colecisti e il fegato. Aiuta contro la stitichezza e il colesterolo, abbassa la glicemia. Può servire da disintossicante.

 

GIOCHI

I  SCAVERCÊ

 

Già il nome fa pensare a qualcosa di instabile. Si tratta infatti dei trampoli. Nati probabilmente come mezzi per attraversare torrenti, sono poi passati  nell’ambiente dei giochi. I nostri erano molto artigianali, rimediati con rami robusti, ma poco rettilinei. Quelli buoni dovevano essere rettilinei, alti più di una persona, con una staffa a circa un terzo della lunghezza. Su quella staffa dovevano appoggiare i piedi. Il trucco sta tutto nel riuscire a rendere solidale il trampolo con il corpo in modo che quelli diventino il prolungamento delle gambe. Il che permette passi molto più lunghi di chi non li utilizza.

 

TREDICESIMA  SETTIMANA

25– 31 Marzo 2013

 

Settimana tosta quella che stiamo vivendo. C’è il Triduo sacro (Giovedì, Venerdì e Sabato Santo), e c’è la Pasqua, la festa della gioia, della resurrezione, della nuova vita.

Pasqua, Phase in ebraico, significa semplicemente passaggio. Ma che passaggio impegnativo per chi vuole vivere il vero spirito della festa: passaggio degli ebrei dalla schiavitù alla libertà, alla propria patria; passaggio dei cristiani dal peccato alla grazia, all’adozione a figli di Dio. E anche passaggio dall’ignoranza alla consapevolezza. Ma che sofferenza per prepararsi alla festa!

Il Giovedì Santo già dava un’idea di lutto: finita la Messa c’era l’ultima possibilità di suonare le campane poi tutto doveva tacere fino alla messa di Resurrezione. Oggi la Messa coincide con la mezzanotte tra il Sabato e la domenica di Pasqua. Nella nostra infanzia invece le campane venivano slegate con la messa del Sabato Santo, intorno a mezzogiorno. Il giovedì era il giorno della visita al Sepolcro. Di sepolcro aveva solo il nome perché, nella realtà, era un tripudio di fiori e candele disposte su un altare secondario.

Il Venerdì trascorreva tutto in meditazione, silenzio, preghiera, in ricordo della morte di Gesù. C’erano delle cerimonie ma non la messa. E questi momenti di riflessione la gente li chiamava la messa matta, perché priva della consacrazione dell’Eucarestia e della Comunione dei fedeli.

E al Sabato? Si cominciava a respirare aria di festa. C’era da correre per fare il pane fresco e i dolci per Pasqua; c’era da pulire la casa, e tante altre occupazioni per trascorrere una Pasqua gioiosa. Verso le dieci si andava in chiesa per la messa che “era lunga come la quaresima” perché prima bisognava leggere (meglio, ascoltare) le profezie, dodici, e belle ciunte e per di più in latino. Poi arrivava, finalmente, la messa vera e il canto del Gloria, che  faceva esplodere tutti i campanili in un concerto di campane a tappeto, in una gara a chi resisteva di più.

 

PROVERBI

 

Il clima di devozione meditativa e di gioia al termine della settimana santa viene riassunto nel proverbio:

A Pasqua a cânta

chî ch’a piànš la Stmâna Sânta.

 

C’è nell’aria la voglia di festa. Il tempo permette anche qualche gita. A Natale conveniva stare in casa a festeggiare coi familiari, ma a Pasqua si può anche prendere qualche altra iniziativa:

Natale coi tuoi,

Pasqua dove vuoi.

 

E anche la luna si adegua al clima di festa:

 

La luna marzolina

fa crescere l’insalatina.

 

E c’è pure una espressione poco intonata al clima pasquale:

 

Tanto durasse la mala vicina

quanto dura la neve marzolina.

AL BÊN

Questo venerdì coincide col Venerdì Santo, il giorno che ricorda la crocifissione di Gesù. Al momento della morte ai piedi della croce c’era Maria, sua madre. Il popolo interpreta così quel momento:

 

IL PIANTO DI MARIA

                                                            Dintorni di Sassuolo

 

La matéina dal Venerdì Sänt

la Madòna la s’é truvêda in gran piänt;

in un grân piänt, in un grân dulòur

ché a s’andêva a la Sänta Cròuš.

 

“Figliol mio, al cör, al cör!

quèsta l’ê la cròuš  del mi’ fiöl.

Questa è la croce, questo è il legno

dove è morto il mio Figlio degno.

 

FILASTROCCA

FILASTRÒCA DAL REŠDÛR

 

Stà sù prèst a la matîna,

spàsa l’âra, và in cantîna

dà un ciupîn a la cavàla,

fà la mès-cia per la stàla,

dà la biâda al sumarîn,

ai raghés insìgnghe al bên.

Quand l’é ûra d’ fâr clasiûn

spartìsla bên, a ûn a ûn.

Dòp mešdì va a fâr un sùn

(quand a t’ làsa stâr cal dùn).

Che pensêr, che brút lavûr

fâr la pârta dal rešdûr!

 

INDOVINELLO

Al và šù ridènd.

al tûrna sú pianšènd.

                        (Il secchio nel pozzo).

POESIA

Questa volta la poesia è in italiano e ricorda la tradizione dei falò.

 

I  FALÒ

di Savino Rabotti

Sui colli, dipinti

nel chiaro orizzonte,

chi accende fiammelle,

frammenti di stelle?

 

Gli scarni profili

di uomini stanchi,

la luce riflette;

 

di bimbi festanti

le amene risate

fan lieta la sera;

 

di fresche speranze

la fiamma leggera

memorie ridesta.

 

La vita ritorna

possente, radiosa,

la gente fa festa,

 

di gioia s’adorna.

L’inverno è finito!

Nell’aria un invito:

la vita ritorna!

USANZE

 I FALÒ

 

Abbiamo visto che i contadini, a Febbraio, ripulivano le siepi e gli argini dei campi. Il materiale tagliato, normalmente rovi, spini, vitalbe e rami di piante non utilizzabili per le fascine, veniva convogliato su un’altura vicino a casa, da dove era possibile vedere ed essere visti da lontano. Chi poteva recuperava anche i ginepri. E lì il materiale veniva conservato fino alla sera del Sabato Santo. Nel pomeriggio di quel giorno si dava una ritoccata alla pira in modo da renderla pronta ad ardere e disposta in modo da produrre una fiamma bella ed alta. Inconsciamente si trattava di una gara senza vincitori e senza vinti, ma con la soddisfazione di sentirsi dire, qualche giorno dopo da gente di altre borgate: “Che bel falò che hai fatto”!

Appena calavano le tenebre comparivano, qua e là sulle alture, i falò, i fuochi di Pasqua.  Fuochi utili, si, ad eliminare quelle fastidiose scorie, ma anche fuochi propiziatori in una notte magica, fuochi che rievocavano la luce della resurrezione di Cristo e, allo stesso tempo, il rinnovato, incontenibile vigore di una irrompente primavera. Ognuno si dava da fare per fare durare a lungo la fiamma del proprio falò, e per il piacere che qualcuno lo ammirasse da lontano.

 

SAGGEZZA ANTICA

IN  DÙBIIS  ÀBSTINE

 

È una massima derivata dal linguaggio giuridico: Quando non sei sicuro non pronunciare giudizi. È un argomento molto sentito. C’è chi dice che Un buon tacer non fu mai scritto, e chi: Se proprio non puoi tacere qualche volta almeno ascolta.

 

SUPERSTIZIONI

MALOCCHIO

 

Fa ritenere che alcune persone abbiano la facoltà di recare male o danno ad altri esseri umani. Uno dei diversi modi di presentarsi del malocchio era la presenza nel cuscino di piume raggruppate a forma di corona o di malloppo sferico. Si ha notizia anche della presenza del malocchio sugli animali, come quel biolco che trovava sempre i crini delle code delle mucche acconciati con trecce perfette. Lui le scioglieva e il mattino seguente le ritrovava perfettamente rifatte. Quando ciò si avverava bisognava ricorrere ad altra persona dotata di poteri capaci di scacciare il malocchio. I modi cambiano da luogo a luogo. Quelli più conosciuti sono:

 

fare con la mano il tipico gesto delle corna verso il portatore di iella;

 

versare in un recipiente acqua pura; aggiungervi qualche goccia d’olio d’oliva e  contemporaneamente  recitare  la  formula:  “Se gli altri te lo hanno dato, io te lo tolgo”. Se le gocce d’olio restavano unite il malocchio non c’era; se si separavano il malocchio c’era ma si poteva eliminare;

 

seguire la persona che si pensava  portatrice di malocchio, raccogliere i legnetti (i stèch) che essa calpestava lungo il percorso e bruciarli,  ponendovi sopra un tegamino con acqua e  qualche goccia d’olio. Perché l’operazione ottenesse l’effetto voluto bisognava che nel tegamino comparisse la figura di chi  aveva causato il malocchio.

 

SATIRE

RICCIARDO  GUIDETTI

 

Ricciardo Guidetti è il poeta di cui si è conservato un poco di produzione e che ha prevalso, in senso di notorietà, sul resto del gruppo. Ha una satira mordace, a volte anche offensiva. Sa di possedere un’arma infallibile e la sfrutta. Però a volte diventa difficile capire perché le sue vittime, già messe alla berlina con la satira, debbano anche sentirsi trattare da ignoranti e incapaci. Ed è un tema che ricorre spesso nei componimenti (pochi, purtroppo!) che sono rimasti. Uno di quei componimenti parla di un tizio non troppo sveglio che rimedia un matrimonio assai chiacchierato. Ecco come lo tratta:

                                         … di testa capricciosa,

                                            lui, furbo come un asino,

                                            la prende e se la sposa.

E poco oltre:

                                           Osavi tu pretendere,

                                           con la tua zucca vana,

                                           che fosse lei a dirtelo

                                           che era una

 

In un’altra satira, scritta contro un tizio che pretendeva far colpo sulle donne, afferma:

                                            Se dir  vogliamo il vero

                                            sopra di questo tale

                                            lui, fra tutti i minchioni,

                                            si chiama il principale.

                                            La Pietra di Bismantova

                                            forse non è abbastanza

                                           a far da contrappeso

                                           alla sua grande ignoranza

 

 

 

CURIOSITÀ

LA CROCE SUL VENTASSO – 1901

 

L’evento era importante: la collocazione della Croce del Ventasso ad opera dei parrocchiani di Busana,  Cervarezza, Talada, Frassinedolo, Nismozza, Acquabona, Vallisnera, Cerreto Alpi, Ligonchio, Ospitaletto, Vaglie, Cerrè Sologno, Caprile, Ramiseto, Gottano e Succiso.

 

Il documento (1901 – 2001  Centenario della Croce del Ventasso) apre una finestra interessante su un mondo che ormai possiamo considerare superato, se non del tutto finito.  Un mondo madido di devozione cristiana e di disponibilità al sacrificio. Un mondo che voleva lasciare dei segni utili a sé stessi e agli altri lungo il cammino terreno inteso come viaggio verso il mondo soprannaturale.

 

L’oratorio ai piedi del Ventasso vanta origini lontanissime. Probabilmente era nato come Ospitale per i viandanti, a ragionevole distanza da quello del Cerreto. Poi divenne romitaggio di una piccola comunità di donne penitenti (comunità fondata da Benvenuta di Ferrario della Costa, 1319), fino ad acquisire una certa importanza di culto e di ritrovo. Ce lo conferma il matrimonio di Richilda di Rossena celebrato nel romitorio (1376) e la fiera di bestiame che vi si teneva già nel 1400 in occasione della festa di Santa Maria Maddalena. Col tempo però l’edificio decadde, fu trascurato, subì un incendio. Recuperato nella seconda metà del 1900 ad opera del parroco Don Simonazzi e degli alpini di Busana e dintorni, oggi è tornato ad essere il centro di interesse di una volta. Nel periodo buio dell’abbandono la Messa si celebrava comunque, non nell’oratorio ma sotto un grandioso faggio, come ci ricorda  il  poeta locale Notari Domenico:

 

Ecco, s’en torna il ventiquattro Luglio

del millenovecento anno cinquanta:

il popol di Busana (è) in gran subbuglio

per salire sul monte ove or si canta

una messa in quel dì, presso un cespuglio,

sotto ad un faggio, una grossa pianta,

a Santa Maddalena sì chiamata,

che sul Ventasso è sempre festeggiata.

 

In occasione della festa del 1901 fu eretta sul Ventasso la croce in metallo fuso a ricordo del giubileo del 1900. A benedire la Croce fu inviato l’allora Don Angelo Mercati, professore al Seminario di Reggio, che poi diventerà cardinale, bibliotecario del Vaticano e storico di primissimo piano. Impariamo anche che il presule era amante della fotografia e che “con una eccellente macchina istantanea colse i momenti più belli della funzione, i panorami, le processioni, la croce monumentale”. Un altro personaggio di spicco a quei tempi, segretario del Papa, fu incaricato di inviare il telegramma della benedizione pontificia. Era il cardinale Scapinelli, modenese di nascita ma discendente dei Conti Scapinelli di Leguigno.

 

 

 

 

 

MEDICINA EMPIRICA

ERBE MEDICINALI

Che le erbe abbiano proprietà medicinali lo si sa fin dall’antichità. Ogni popolo, antico o recente, ha il proprio modo di utilizzare le erbe o le piante a proprio beneficio. Alcuni esempi.

L’Achillea veniva usata come antiemorragico; l’Alloro, l’Origano, la Centaurea, il Finocchio e il Ginepro aiutano la secrezione gastrica.

Sono invece sedativi per il sistema nervoso la camomilla, la Valeriana, il Papavero, la Malva, la Lavanda, la Menta, il Tiglio.

 

GIOCHI

LO SCOCCINO

 

Oggi lo possiamo vedere nelle grandi piazze, organizzato da associazioni di promozione turistica. Ai nostri tempi era più intimo, limitato ai conoscenti e agli amici stretti. Il primo incontro avveniva il Sabato Santo dopo la Messa solenne. Il sagrato della chiesa faceva da arena, e qua e là si vedevano le coppie che si sfidavano, senza problemi di età. Piccolo stratagemma, insegnato da tutti come se fosse un segreto, ma noto a tutti, era il modo di tenere l’uovo quando si stava sotto. Bisognava esercitare con la mano una leggera pressione sul guscio dell’uovo. In quel modo sarebbe diventato più resistente. Quando si perdeva ci si restava male. Ma guai se ci si accorgeva che qualcuno barava. Quello non avrebbe più trovato concorrenti con cui battersi. Ci fu un caso scandaloso quando ero piccolo. Un tizio più grande di me di pochi anni, si era fatto fare un uovo di legno al tornio. Chi glielo aveva fatto si era fatto promettere che non lo avrebbe usato per lo scoccino. Quello promise, ma poi se ne… dimenticò. Quando i concorrenti si accorsero che l’uovo era più piccolo degli altri cominciarono a recriminare. Il reo si giustificò dicendo che era un uovo di anitra, perciò più piccolo. Ma le anitre non fanno delle righe di abbellimento, come aveva il suo e come disse d’aver fatto di proposito il falegname per distinguerlo. Se non ci fu il linciaggio quel tale dovette ringraziare la Pasqua.

 


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