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“Nuièter ch’ì parlema ancùra in dialèt” Terza puntata in onda il venerdì alle ore 17,30

1 Marzo 2013

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Savino e Normanna negli studi di Radionova

Savino e Normanna negli studi di Radionova

QUINTA SETTIMANA

 27 Genn. – 02 Febbr. 2013

 

Questa settimana ci regala due ricorrenze importanti.

Iniziamo coi così detti Giorni della merla, gli ultimi tre del mese, i giorni considerati i più freddi dell’inverno. Narra una leggenda che inizialmente il mese di Gennaio aveva 28 giorni mentre ne aveva 31 Febbraio. Erano anche allora giorni freddissimi e per molti uccelli c’era il rischio di morire di fame e di freddo. Una merla, arrivata al 28 gennaio, si ritenne al sicuro e sbeffeggiò il mese con questa uscita:

Più non ti temo, domine,

ché uscita son dal verno.

Gennaio andò su tutte le furie, chiese in prestito tre giorni a Febbraio, poi intensificò talmente il freddo che la povera merla morì. Da allora i tre ultimi giorni di Gennaio vengono chiamati i giorni della merla.

 

A fine settimana abbiamo un’altra giornata particolare, molto sentita dai nostri nonni. Si tratta della festa della Purificazione di Maria Vergine, che i nonni chiamavano Candelora o Seriöla e anche Sigajöla. Abbiamo appena preso in considerazione le Calende, (o festa di S. Paolo delle calende o dei segni), uno dei tanti momenti in cui si cerca di indovinare (uso questo verbo di proposito) come sarà il tempo in futuro. Come Santa Bibiana anche la Candelora costituisce un punto preciso di riferimento. Io parlo per il nostro territorio, ma è così ovunque, con nomi o battute diverse. Vediamone alcune esaminando qualche proverbio relativo.

 

Perché si dice Candelōra e Sigajöla.

Candelōra è la traslazione del termine latino ecclesiastico: Fèstum candelòrum, al dialetto, ed equivale a: Festa dei ceri o delle candele. Sigajöla invece è la costatazione che quel giorno potrebbe esserci un vento freddo e violento, che sibila (in dialetto Sigâr) fra le imposte o nei boschi. Non so invece da che termine derivi Seriöla. Il sospetto è che c’entri il vocabolo Sèrus  = tardivo, serale, quindi vento della sera, o che viene da ponente.  Ma non ho riscontri.

 

PROVERBI

 

Il grande freddo fa gelare la neve in superficie, ma sotto, a contatto con la terra, specialmente lungo i solchi o i fossi, la neve continua a sciogliersi lentamente. Ecco perché si dice:

Šnâr al fà i pûnt    (ghiacciando la strada)

Fervâr a i rûmp,    (scioglie il ghiaccio)

Mârs a i pôrta via, (continua a sciogliere il ghiaccio)

Avrîl sûga la via.    (con le belle giornate).

 

Gennaio è anche il mese in cui le galline produco maggior numero di uova:

 

Šnâr

l’impìs d’öv al pulâr.

Oppure:

Non c’è gallina né gallinaccia

che di Gennaio uova non faccia.

 

E passiamo alla Candelora.

 

Quànd a vên la Candelôra

dell’inverno siamo fora

con quel promiscuo di italiano e dialetto usato spesso per esigenze di rima. A fine Gennaio si respirava già aria di rinascita, di passaggio dal rigido inverno alle giornate tiepidine e col sapore già di primavera. Dire però che questo periodo è perlomeno pazzo non si rende ragione al clima. La tesi è che il tempo del 2 Febbraio sarà uguale per lungo tempo. Però… C’è anche qui un però. Un condizionamento. Quel giorno dovremmo avere cattivo tempo. Se è sereno la bella stagione ritarderà:

 

Ma se ‘l sûl al bàt int la candlîna

a tûrna târdi la rundanîna.

(che vuol dire: Se c’è il sole il 2 Febbraio comincia tardi la Primavera).

 

E allora? Mescoliamo le carte e diamo una spiegazione a tutto. Qualsiasi tempo ci proponga la Candelora prima o poi cambierà. Serietà di preconizzazione a parte. Infatti un anno, per diletto e non per scaramanzia, ho provato a seguire le istruzioni per l’uso. C’è stato il sole, la pioggia, il vento e la neve. Conclusione a posteriori: la Seriöla comunque aveva detto il vero:

 

Per la Seriöla

o ch’a nèv o ch’a piöva,

o ch’a nàs una viôla,

o ch’a tîra la sigajöla.

Tirâr o n’ tirâr,

quarânta dì la n’ pöl durâr.

 

AL BÊN

Anche questo testo è un miscuglio di più componimenti legati tra di loro più dalla confusione di chi li recitava che da un nesso logico. Già dal titolo sorge un dubbio: Orazione benedetta oppure Orazione detta bene? In dialetto la differenza è pochissima: bendèta o bên dìta.

UN’URASIÛN  BENDÈTA

Un’urasiûn bendèta  (ben dìta)

la vâl pu’ che ‘na Mèsa.

‘Na Mèsa a Sant’Àna:

San Pêdre a la ciàma,

San Jusèf al rispùnd.

 

Rôba in cêša, rîš in tèra,

piumîn d’altâr,

funtanîna dal Paradîš,

biâda a cl’ànma ch’a la dîš,

biâda a cl’ànma e a cul côrp

ch’a la dîš trentisê  vôlt

la Vigilia, la sîra d’Nadâl

prìma d’andâr a snâr:

al pöl cavâr un’anma dal Purgatòri

e a la metrà  in  Paradîš.

FILASTROCCA

FILASTROCCA DEL BUON TEMPO

(o del buontempone)

Filastròca dal bûn têmp:

tînte strìch ch’a tîra ‘l vênt.

Mètte a quêrt quand a spiuvšîna,

quàcia l’ôrt s’a vên la brîna.

Quànd t’a t’ lêv và a fâr clasiûn,

se t’ vê a lèt dì gli urasiûn.

Quand al stùmghe l’é bên piên

to’ la vita cme la vên;

fîn che t’ gh’ê i marèngh in sàca

sta cuntênt e va’ in baràca!

 

INDOVINELLO

Côrp ad fèr, ànma d’ bambâš,

s’a n’ funsiûna i’ gh’ tàj al nâš.

(Il lume a petrolio).

 

POESIA

PER  FÂR ‘NA PUEŠIA…

 

Per fâr ‘na puešìa

gh’ völ set côši:

‘na brîšla d’ fantašìa

e un màs ed rôši,

 

‘na bèla stòria

da pudêr cuntâr,

un pô d’ memòria

ch’ la t’ la fà arcurdâr,

 

‘na bùna vêna

per fâr bên la rìma,

e un’aria srêna

da stremnâgh insìma;

 

un ciùp ad gênta

ch’ la te stà a scultâr

e ch’ la stà atênta

sensa sbadaciâr.

 

PER FARE UNA POESIA…2003 – Per comporre una poesia occorrono sette cose: una briciola di fantasia e un mazzo di rose, una bella storia da raccontare, un poco di memoria che te la fa ricordare, una buona vena per fare bene la rima, un’aria serena da spargervi sopra, un gruppetto di gente che ti sta ad ascoltare ma che sta attenta senza sbadigliare.

 

USANZE

BENEDIZIONE DELLE PUERPERE

 

È una usanza importata direttamente dalla religione ebraica. Quando una donna partoriva doveva aspettare oltre un mese prima di potere prendere nuovamente parte alla liturgia pubblica. Anche nell’antico testamento la puerpera doveva aspettare quaranta giorni prima di salire al tempio. In quella occasione offriva qualcosa al sacerdote (per il popolo bastava un paio di colombi o di tortore) per purificarsi. Il concetto che procreare contenesse una sfumatura di impudicizia è rimasto a lungo anche nella Chiesa cattolica. Perciò la neomamma, prima di rientrare ufficialmente nella comunità, doveva “Farsi tirare” come si diceva allora. Scaduti i quaranta giorni si presentava al sacerdote che la riceveva dalla porta secondaria della chiesa, recitava alcune preghiere poi le faceva toccare la stola e la introduceva in chiesa. Da qui il termine farsi tirare, cioè farsi accompagnare all’interno del tempio.

 

SAGGEZZA ANTICA

IN MEDIO STAT VIRTUS.

 

La virtù sta nel mezzo. È un’espressione della Scolastica medievale adottata universalmente. Si ripete tante volte sotto altra forma. Un giusto equilibrio è sempre la cosa migliore. Anche Orazio afferma che: C’è la giusta misura in tutto. Vi sono dei limiti oltre i quali, o prima dei quali, non può sussistere la verità.

 

SUPERSTIZIONI

PREGIUDIZI

 

Sono tante le manie, o superstizioni, che infastidivano le gente di un tempo.  Una di queste riguarda i bambini piccoli piccoli.  Anche a loro, come ai grandi, crescono i capelli e le unghie. Ma un detto suonava così: Non tagliare mai le unghie ai piccoli. Da grandi diventeranno dei ladri.

 

SATIRE

MARCHÈT DA LA CÊŠA.

 

Di Marco Castellari abbiamo già parlato la settimana scorsa proponendo il componimento La luce elettrica a Rivolvecchio. La storia della luce però non finisce lì. Sia nella ricostruzione dei fatti per opera di Giovanelli, sia ascoltando persone informate ci risulta che, sempre in quella occasione a Rivolvecchio, ci fu un episodio degno di nota, e Marchèt lo descrisse nel componimento. Ma di quel passaggio abbiamo solo sei versi.  A Rivolvecchio vive anche un povero contadino, senza soldi. Parla coi figli e decidono di partecipare anche loro al progetto di prendere la luce elettrica. Per pagare l’allacciamento decidono di vendere due maiali a Boni di Castelnovo, che però pretende che glieli consegnino in macelleria. Debbono arrangiarsi come possono:

 

Càrga sú sti dû pursê,

ûn da co’, clàter da pê,

 

int un casûn fàt a cariöla.

Ma quand i’ ên cûntra a Mundaröla

 

ste casûn al gh’é sbandâ

e sti pôrs i gh’ên scapâ.

 

Padre e figli recuperano poi i maiali, ma quando si presentano in macelleria il titolare si rifiuta di prenderli perché erano  tutti ammaccati. Come al solito, oltre al danno anche la beffa.

 

CURIOSITÀ

I GESSI

 

Lungo il Secchia, a chi dalla Gatta sale oltre i Pianelli, appare una parete bianca, come se la montagna fosse stata tagliata da cima a fondo. Sono i noti Gessi Triassici, uno spettacolo nello spettacolo già bello delle nostre montagne. Detto così il nome sa di mistero ma non ci viene in mente altro. Sono chiamati Gessi per la loro composizione chimica, che suona così: solfato di calcio biidrato. Gli intenditori usano la formula CaSO, 2H2O. Il loro nome è stato suggerito da un termine tedesco, Trias, che indica il sistema montuoso della Germania. Si presentano sotto forma di cristalli prismatici, e la loro età si aggira sui 25.000.000 di anni. Il gesso come tale è da sempre utilizzato nell’edilizia come cementante o come tinteggiante. Ben diluito in acqua serviva anche come disinfestante per le piante da frutta. Per ottenere il gesso occorre cuocere i blocchi. Per gli usi normali si cuoce ad una temperatura tra i 120 e i 180 gradi. Per usi speciali la cottura avviene a temperature superiori.

 

MEDICINA EMPIRICA

 

Tenetevi forte. E ringraziamo d’essere nati dopo che queste cure erano decadute. Quale bimbo non ha mai fatto la pipì a letto?  Il guaio era se il bimbo continuava nella sua incontinenza anche dopo una certa età. Allora non c’erano psicologi cui rivolgersi. Bisognava ricorrere a cure drastiche. Questa era la soluzione: bisognava far mangiare al bambino un topo, ma a sua insaputa. Chissà se, almeno, lo si poteva cuocere e… pelare.

 

GIOCHI

LA ŠLISARÖLA (o BLIŠGARÖLA)

 

Il ghiaccio ha sempre attratto i ragazzi. Potersi divertire camminandovi sopra e facendo acrobazie era come riportare una importante vittoria sugli elementi, un dimostrare la propria superiorità e la forza di carattere per superare le forze avverse. Da noi, in montagna, era facile costruire una pista. Un dislivello lungo la strada ove, di giorno, fosse scorsa un poco di acqua bastava per fare le prime prove. Poi, con l’uso, la pista si sarebbe allargata e allungata. Magari, la sera, la si poteva aiutare con qualche secchio d’acqua che, gelando, ne avrebbe perfezionato la sede. In questo caso erano avvantaggiati coloro che calzavano zoccoli di legno: la loro rigidità e resistenza poteva benissimo sostituirsi ai moderni pattini. Un altro modo di fare la scivola, in assenza di neve,  consisteva nello scoprire un tratto di riva privo di vegetazione, una specie di solco profondo e ripido. Ci si sedeva al vertice e ci si lasciava andare a peso morto fin dove era possibile. Naturalmente questo comportava un certo logorio dai pantaloni nella parte posteriore, con relativa lavata di capo da parte della mamma.

 

 

SESTA SETTIMANA

3 – 9 Febbraio 2013

 

Diamo il benvenuto ai nostri ascoltatori. Il passaggio da Gennaio a Febbraio non coincide con la conclusione della settimana. Nella precedente abbiamo avuto materiale a iosa, in questa scarseggiamo un tantino. Ne approfitto per ricordare un santo molto venerato da noi, quassù in montagna: S. Biagio. Ci protegge contro il mal di gola.  Sappiamo che S. Biagio è vissuto nel III° secolo, che fu vescovo di Sebaste in Armenia, e che subì il martirio sotto l’imperatore Licinio. Viene invocato contro il mal di gola perché, secondo un racconto agiografico, liberò una bambina da una spina di pesce che le si era conficcata in gola. La devozione al santo probabilmente è arrivata a noi attraverso il dominio bizantino e si è radicata bene.

 

PROVERBI

 

Sembra una fissazione quella di tenere costantemente il pensiero al tempo. Il proverbio che segue si pone in contrasto con quello della Candelora, secondo il quale il brutto tempo non può durare a lungo. Infatti:

 

La nêva d’ Sân Biêš

la dûra tút al mêš.

 

E continua l’invito ad essere prudenti:

 

Di gennaio e di Febbraio

metti il tabarro.

Ma sarà poi tutto negativo questo freddo?

 

Febbraio nevoso,

estate gioioso.

 

AL BÊN

MADUNÎNA CÂRA, CÂRA

 

Debbo ripetermi. Di questa preghiera si conosce un numero impressionante di versioni; viene adattata a luoghi o a persone, ricordata approssimativamente, ricomposta quando la memoria non basta più.

 

Madunîna câra, câra,

imprestêm la vostra scâla

ch’i’ ho d’andâr in Paradîš

a sercâr San Luì-g.

 

San Luì-g l’era mort,

la Madùna l’era int l’ort

a sercâr di gelsumîn

da purtâr al su’ Bambîn.

 

Nostre Sgnûr quand al nasîva,

túta la tera la fiurîva.

E i’ angiulîn a cantâr,

e la Madùna a predicâr.

 

Nostre Sgnûr l’era in snuciûn

ch’al cantêva l’urasiûn.

 

Piên ad rôši, piên ad fiûr,

la Pasiûn  d’ Nostre Signûr.

 

FILASTROCCA

Tra le filastrocche inventate per insegnare ai più piccoli le cose di tutti i giorni c’è anche la seguente, che propone la conoscenza dei giorni della settimana.

 

Lunedì andò da Martedì

per sentire se Mercoledì

aveva saputo da Giovedì

se era vero che Venerdì

aveva detto a Sabato

che Domenica era festa.

 

INDOVINELLO

In bòsch al nàs, in vìla al câmpa;

l’é al vîv ch’al pôrta al môrt,

l’é al môrt ch’al cânta.

Al gh’ha la pânsa vöda e i budê tirâ

e ‘l fà squasâr al cûl a j’inamurâ.

(Il violino).

 

 

 

POESIA

LA  PARTÎDA  A  BÒCI

 

A la dmèndga,  dòp mešdé,

quàtr’ amîgh, méi,  quàter sòci,

i’ s’arcàtne a l’usterìa

per fâr  ‘na partîda al bòci.

 

Pôch luntân a gh’é un tavlîn

cûn un fiàsch e di bicêr:

vîn nustrân, s-cèt e sincêr,

sênsa  trúch e sensa vlîn.

 

Prìma ch’ i’ s’ mèti d’acôrdi

quân-c  a-šquêši, quânti mòsi:

tút un blèf, túta ‘na fînta,

e perfîn paròli gròsi.

 

Pêra o dìspre, dìspre o pêra…

… finalmênt a va ‘l bucîn.

Quânt armûr e quânta fêra

se la bòcia la n’ gh’ và  všîn!

 

Ugni tânt a s’ sênt un s-ciòch

fôrt e sèch, cùma un bašîn

dâ da scûš, cun al lúšghi a j’ ò-c,

quand a s’êra šuvnutîn!

 

Da sú in cêl al sûl al guârda

sudisfàt, cun simpatìa:

l’é fîn bèl vèder cla squâdra

ch’ la s’ la pàsa in armunìa!

 

L’é fîn bèl che gh’ sìa d’ la gênta

che cun pôch la s’acuntênta!

 

LA PARTITA A BOCCE  2005

La domenica dopo pranzo quattro amici, meglio, quattro soci, si ritrovano all’osteria per fare una partita a bocce. Poco lontano c’è un tavolino con sopra un fiasco e alcuni bicchieri: vino nostrano, schietto e sincero, senza alterazioni e senza veleni. Prima che riescano a mettersi d’accordo quante smorfie, quante mosse: tutto un bluf, tutta una finta, e persino parole pesanti. Pari o dispari? Dispari o pari? … Finalmente parte il pallino! Quanto rumore e quante lagnanze se la boccia non gli va vicino! Ogni tanto si ode uno schiocco forte e secco, come un bacio dato di nascosto, con gli occhi lucidi, quando eravamo ancora giovincelli! Da lassù in cielo il sole osserva soddisfatto, con benevolenza: è perfino bello vedere quella squadra che se la passa in armonia. È fin bello che vi sia ancora gente che si accontenta di poco!

 

USANZE

 

San Biagio è anche il co-patrone di Crovara.  Per noi, ultima appendice verso Nord-Est, sarebbe stato più facile frequentare Crovara invece di Santo Stefano. Perlomeno il dislivello era minore, e anche i chilometri.  Inoltre, per la mia famiglia, lì c’era il punto di partenza della nostra genealogia. A partire dalla fine del 1300, con quel non meglio identificato Rabòt o Rabòto, quella era la culla della nostra stirpe. Con quel senso di appartenenza che un poco ci distingue, anche se erano passati secoli dal momento della separazione, ci recavamo “in parenti” a Legoreccio o a Casalecchio. Fosse per devozione o per altri motivi, la mattina del 3 Febbraio almeno qualcuno della famiglia doveva andare a messa a Crovara. Dopo sarebbe andato a pranzo da famiglie amiche. E ricordiamo che fino agli anni cinquanta la festa di San Biagio durava due o tre giorni. Bisbocce a parte, per ora ritorniamo in chiesa perché è la cerimonia della benedizione delle gole che ci interessa. Terminata la messa solenne, normalmente cantata e con celebrante, diacono e suddiacono, il celebrante si avvicinava all’effigie di S. Biagio, recitava una preghiera particolare, poi passava alla benedizione della gola di ogni fedele. Recuperava dall’altare del Santo due candele legate con un nastro rosso, recitava ancora una preghiera speciale, poi le prendeva per la parte inferiore, le allargava a forma di forbice, le avvicinava alla gola di ogni fedele chiedendo a Dio che, per intercessione di S. Biagio, allontanasse ogni pericolo di male. Volendo si potevano acquistare due candeline da portare a casa, ma erano talmente esili che raramente raggiungevano intere l’abitazione.

 

SAGGEZZA ANTICA

AUDACES FORTUNA JUVAT

 

La fortuna aiuta chi osa. Si tratta di una trascrizione approssimativa, ma salvando il concetto, di un verso di Virgilio: Audentes fortuna juvat. Corrisponde al nostro aiutati che il cielo ti aiuta. Possiamo considerare il motto come uno sprone a lavorare, senza aspettare che la manna cada dal cielo.

 

SUPERSTIZIONI

I FUOCHI FATUI

 

Sentir dire che in certi posti ci si vede (si vedono cose strane) era abbastanza frequente. Soprattutto quando si trattava di cimiteri. La fantasia legava il fenomeno all’esigenza di suffragi per le anime purganti. Non potendo comunicare direttamente coi propri cari si manifestavano così, con piccole e rapide fiammelle. In realtà si tratta di un fenomeno fisico. Il corpo in decomposizione produce fosfina. Questa riesce ad arrivare in superficie, ma a contatto con l’aria si accende e si consuma in un attimo.

 

SATIRE

Torniamo a parlare di (meglio, a far parlare) Marchèt da la Cêša. Col suo fare bonario, ma da acuto osservatore, descrive Felina incorniciata tra i monti.

 

Ecco Flîna ch’ l’ê un paišòt

circundâ da muntaròt;

propia in cèntr’ i gh’èm cul bel

che e’ su nòm lû srê e’ castel

ch’a n’ s’in vèd  po’ gnân d’ cumpàgn

che propia inséma a gh’è un Salàm.

E s’i’ gh’ girê pu’ bên in tònd

cuma fûrma l’é bel tònd,

l’é cumpòst d’ úndes fnestrîn,

dêš ad grand e a gh’ n’é un cichîn.

Me i’ m’ sûn dâ la mi’ pasiênsa

sèdeš mètr’ ad circunferênsa,

e l’altèsa, s’i’ la vrî,

amšurêla e po’ il sajî.

A levante i gh’èm Valètra,

a punente i’ gh’èm e’ Gaz,

e da d’lì s’ vèd bên ‘l Ventàs

e la Prêda ch’ l’ê un grân sàs.

 

Felina, un gran paese – Ecco Felina: è un paesotto circondato da piccoli monti; proprio in centro abbiamo quello bello il cui nome è il Castello, di cui non si vede l’uguale, perché sulla cima c’è un Salame. E se gli girate intorno come forma è perfettamente rotondo; è composto da undici finestrini, dieci larghi ed uno piccino. Io mi sono concesso la pazienza di misurarlo: è sedici metri di circonferenza. Se vi interessa l’altezza misuratela, dopo la saprete. A levante c’è Valestra, a ponenete il monte Gazzo; da lì si vede bene il Ventasso e la Pietra che è un gran sasso.

Poi la poesia continua con la presentazione di Mons. Pignedoli, al momento Nunzio in Bolivia e, successivamente, cardinale.

 

CURIOSITÀ

LE  PIETRE MAGICHE  DI BORZANO

 

Parliamo di Borzano di Canossa, il paese arroccato a cavallo tra la valle del Tassobio e quella dell’Enza, in vista delle colline del  parmense. Borzano è un nome più che latino, latinizzato. Gli studiosi ritengono che derivi da un nome celtico, poi latinizzato dopo l’occupazione romana. Significherebbe: boschetto di Giano (Borretum Jàni). Anche i celti avevano la figura di Giano fra le divinità, il dio bifronte che vede il futuro e conosce il passato. Nella parte occidentale del paese, poco fuori dell’abitato, si trova una roccia vulcanica su cui sono incise coppelle e solchi. L’opinione più diffusa è che quelle coppelle e quei solchi fossero utilizzati per ardere resine in onore delle divinità della tribù. Quindi luogo di magia, legato ai riti sacri, propiziatori. L’idea è confermata dalla posizione panoramica del masso, rivolto ad occidente, in faccia al sole che tramonta, e in una zona eccezionalmente panoramica, alla confluenza di due corsi d’acqua, il Tassobio che entra nell’Enza.

 

MEDICINA EMPIRICA

FERITA DA TAGLIO

 

La convivenza continua con attrezzi da taglio (accette, manarini, falci), e il terreno disagevole potevano offrire occasioni frequenti di ferirsi. Anche perché non sempre questi attrezzi venivano riposti in luoghi sicuri. Se la ferita era prodotta da uno di questi attrezzi si usava la scorza di un ramo d’olmo come fasciatura sia per disinfettare che per fermare l’emorragia. Anche la cenere veniva utilizzata come cauterizzante. In caso di ferimento casuale lontano da casa ci si disinfettava con l’urina.

 

GIOCHI

IL GIROTONDO

 

Sono quei giochi inventati, oltre che per divertire e impegnare i bambini, anche per farli socializzare ed abituarli a stare alle regole. Si tratta di un gioco importato, visto che il testo da recitare è in lingua. Tutti assieme formavano un cerchio e, tenendosi per mano, recitavano una specie di nenia. Al termine, a seconda del testo, dovevano compiere una azione come, ad esempio buttarsi tutti a terra, fuggire lontani, rincorrere uno in particolare. Il più noto era:

Giro, girotondo,

casca il mondo,

casca la terra:    

tutti giù per terra.


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