Selwyn Birchwood: il Bluesman dal giudizio sospeso.
3 Aprile 2021
Da più di un anno, anche per cause di forza maggiore, molti di noi hanno avuto il tempo e il modo di curare maggiormente le proprie passioni. Ed è proprio grazie alle nostre passioni che perdiamo la concezione del tempo. Ci concentriamo sul risultato isolandoci completamente ignorando il male che il Mondo ci sta riservando. La musica, ma più che altro il suo ascolto, ci ha dato una mano nel riconquistare un po’ di serenità e continuare a credere. I primi dodici mesi di Pandemia sono stati un susseguirsi di ascolti, che mi hanno dato delle conferme che mi aspettavo, tante delusioni ed alcune attese speranze. Una di queste e Selwyn Birchwood, un giovane chitarrista della nuova generazione molto originale. Birchwood è nato in Florida nel 1985, cominciò a strimpellare la chitarra da ragazzo fino a quando, arrivato a 17 anni, scoprì Jimi Hendrix e Buddy Guy: due artisti che hanno inciso molto sulla sua maturità di musicista. Come molti in questo campo anche Selwyn ha avuto il suo mentore. Appena ventenne fu presentato a Sonny Rhodes, un texano, veterano del Blues che, appena ne ha scoperto le qualità, lo ha voluto subito nella sua band. Questo è stato un periodo importante per la sua formazione che gli ha consentito di perfezionare la sua tecnica, e imparare a suonare la Chitarra Lap Steel, ma anche migliorarsi come uomo per diventare un leader. Nasce così nel 2010 la Selwyn Birchwood Band: un gruppo che conquista la stampa statunitense con il suo sound misto di Blues, Rock Blues e R&B. Così, strada facendo, nel 2013 vincono l’International Blues Challenge che permette loro di fare delle tourneè negli Stai Uniti. I primi due album, esattamente nel 2011 e 2012, sono passati inosservati, ma grazie alla vittoria al Challenge, la Alligator Records nel 2014 pubblica Don’t Call No Ambulance. Nel 2015 arriva il Blues Music Award per la categoria Best New Artist Album. Ad oggi sono cinque gli album realizzati da Birchwood e Living in a burning house è l’ultimo uscito in Italia verso la fine di gennaio di quest’anno. A produrre il disco è stato un certo Tom Hambridge. Autore, compositore, ingegnere del suono e produttore, una sorta di guru che ha collaborato, a vario titolo, con una serie infinita di artisti, conquistando due Grammy e varie nomination. Qui lo troviamo nella veste di produttore. Hambridge ha prodotto lavori per Bonamassa, Susan Tedeschi, Buddy Guy, Quinn Sullivan e tanti altri, insomma una vera garanzia. L’ascolto di Living in a burning house ha scatenato in me un miscuglio di sensazioni che mi porta a fare una riflessione complessiva. Selwyn con la chitarra e un fenomeno e ha una voce da Bluesman navigato. La Band che l’accompagna è ben amalgamata. L’album è interessante ma non mi ha convinto totalmente. Cerco di spiegare il perché. Credo che Brirchwood sia arrivato ad un livello alto di creatività, considerando poi il fatto che le sue influenze musicali sono varie, tra progettare il disco e realizzarlo si è perso qualcosa per strada. Non è un fattore negativo, anzi è il risultato premiante del lavoro fatto in tutti questi anni e alla grande dedizione per il Blues. Il problema è che le idee si vorrebbero mettere in atto tutte ma senza dare una certa priorità si rischia di perdere di vista l’obiettivo. Sono convinto che Tom Hambridge, dall’alto della sua bravura, troverà la dritta via cominciando a preservare il materiale che è rimasto fuori. Living in a burning house è un disco da possedere perché sarà il punto di partenza di una carriera che darà a Selwyn Birchwood tante soddisfazioni. Sono certo che il prossimo lavoro sarà un capolavoro e quindi, il nostro caro Selwyn, da attesa speranza diventerà una certezza.
Gianfranco Piria per la rubrica Me & Blues