“Nuièter ch’ì parlema ancùra in dialèt” dodicesima puntata in onda martedì alle ore 10.00, ascolta i file in anteprima
17 Maggio 2013
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DICIANNOVESIMA SETTIMANA
6 – 12 Maggio
Maggio risveglia i nidi,
Maggio risveglia i cuori:
porta le ortiche e i fiori,
i serpi e l’usignol.
(G. Carducci: Maggiolata)
Così la pensava Carducci. In altre parole:
Primavera sveglia tutti,
belli e brutti.
I PROVERBI
Messaggeri della Primavera da sempre sono le rondini. Oggi meno numerose per mancanza di stalle, e quindi per assenza di cibo (i moscerini che si riproducevano nei letamai). Le rondini erano considerate sacre, venivano definite le gallinelle della Madonna, perciò non si doveva fare loro del male, anzi, se sceglievano la propria casa o la propria stalla per farvi il nido era quasi un privilegio:
Biâda a cla ca’
indu’ la rundanîna la gh’ fa.
La presenza delle rondini diventava un test di riferimento: il loro arrivo può servire per capire come saranno i raccolti, perché
S’a cânta prèst la rundanîna
l’é pu’ rèmel che farîna!
A Maggio il clima dovrebbe essere abbastanza caldo. Tuttavia… per prudenza …
Fino all’Ascensione
non mollare il tuo giubbone;
Fino ai Santi Fiorentini
non pigliare i panni fini.
I Santi fiorentini sono: Zanobi (25 Maggio), Filippo Neri (26) e Maria Maddalena de’ Pazzi (27).
AL BÊN
La strofetta che proponiamo fa parte di quel gruppo di giaculatorie che la gente di un tempo recitava passando davanti alla chiesa, ad una maestà, al cimitero.
ALLA SANTA CROCE
Crûša sânta, crûša dìgna
ch’l’a m’ lâva, ch’l’a m’ sìgna,
ch’l’a m’ mèt in bùna via
per salvâr l’ànma mia.
FILASTROCCA
È frequente nelle filastrocche il richiamo a tornei cavallereschi, a cavalieri erranti. In questo caso il signore manda a dire alla propria moglie di predisporre il pranzo per ospitare un cavaliere di passaggio.
TRÒTA, TRÒTA, CAVALÛN
Tròta, tròta, cavalûn,
pôrtme in piàsa dal padrûn,
dìgh acsé a la siûra Pàvla
ch’ la manìsa bên la tâvla
ch’ l’ha da gnîr un furastêr
tút vestî da cavaliêr!
INDOVINELLO
Più che un indovinello quello che riportiamo oggi è un rebus. A noi lo proponevano così, con una sonora risata quando dovevamo arrenderci senza trovare la situazione.
Tre pere penzolavano:
tre frati le guardavano.
Ognuno prese la sua
e ne rimasero due.
(Uno dei frati si chiamava Ognuno).
POESIA
LA STADÊRA
di Savino Rabotti
A dêš àn j’ gh’ îva adòs
l’argênt vîv, e ‘na grân šmània
d’ caminâr, d’ saltâr i fòs,
ad gnîr grand subìt, in prèsia,
e i’ m’ cherdîva d’ prêr decìder
cun ‘na vita aventuriêra
sûra al piàt ad la stadêra.
Vers i vînt (a m’ sa nurmâl !),
piên ad fôrsa e piên d’ vigûr,
entusiàsta d’ij ideâl,
a m’ parîva d’ prêr cumbàter
per la pàtria e per l’unûr,
e j’ ho mìs una bandiêra
sûra al piàt ad la stadêra.
Via, via pu’ madûr
(pr’afruntâr anch l’esistênsa
in un mòdo pu’ sicûr)
j’ho cminciâ ad avêr prudênsa,
a sercâr da stâr in bìlich
tra la gènta e la cusciênsa
e ‘na vìta pu’ sincêra
sûra al piàt ad la stadêra.
Quand i’ srèma là vers sîra,
giúst in têmp per fâr i cunt,
s’i m’a-dmàndi cme la gîra,
s’i ho pajûra o s’i sun prunt,
i’ rispundrò che di mutîv
pra scampâr da galantòm
i’ n’ho druvâ fin ch’i êra vîv.
E i’ gh’ metrò la vita intêra
sûra al piàt ad la stadêra!
USANZE
Durante il mese di Maggio le famiglie si ritrovavano per recitare una terza parte del santo Rosario. Normalmente si andava nell’oratorio della borgata, se c’era, ma più spesso presso una maestà, vicino ad un crocicchio. L’onore di attaccare il rosario di solito spettava alla signora più anziana del gruppo. Alcune volte però si passava l’incarico ad una ragazzina sveglia e che sapeva leggere. Questo incontro non era solo religioso. Terminata la recita le persone si intrattenevano in crocchi diversi e si scambiavano informazioni o pareri, mentre i più piccoli giocavano tra di loro fino a crollare per il sonno e farsi portare a casa in spalla.
SAGGEZZA ANTICA
NULLA DIES SINE LINEA. (Plinio).
Nella nostra parlata: N’armandâr mai a dmân cul che t’ pö fâr incö. Ma, alla lettera: (Che) nessun giorno passi senza (avere tracciato almeno) una riga. Il motto è riferito al pittore Apelle che non passava giorno senza allenarsi, come dovrebbe essere per tutti. Trova conferma nell’altro adagio Diem perdidi, (Ho sciupato una giornata) attribuito all’imperatore Tito, che considerava inutile una giornata trascorsa senza aver fatto del bene.
SUPERSTIZIONI
Il sospetto è sempre lì, vero o presunto. Per cui, nella cultura popolare, si possono avere sensazioni premonitrici:
S’a fìs-cia l’urècia drìta
parola maldìta;
s’a fìs-cia l’urècia stânca,
parôla frânca.
Costatazione che viene trasferita anche agli occhi:
S’ a bàt l’ò-c drìt
cör aflìt;
s’a bàt l’ò-c stânch
cör frânch!
SATIRA
Azzolini Luigi, detto Gigi al satrista, era di Vetto, dove lavorava come lettore dei contatori della luce della Società Emiliana. Di lui possediamo solo un prolisso componimento su un episodio che fece epoca. Ci fu, al tempo del fascio, una cena in onore del segretario comunale. Per l’occasione era presente anche il Viceprefetto che elogiò e promosse il segretario. I gerarchetti del posto si diedero da fare perché la festa riuscisse bene, ma ci furono tanti contrattempi. In più, qualche tempo dopo fu mandato il conto anche a coloro che erano rimasti lungo le scale e avevano mangiato solo gli avanzi.
GLI IMPIEGATI DI VETTO
Questa mia mente non può tacere!
Inesperta mano, ma pur vuol vergare,
piccol cervello, ma pur sa pensare
non di comporre storie, ma cose vere.
E questo è il fatto che vo a spiegare
se tutti quanti mi state a scoltare.
Ricorderete che un giorno a Vetto
tutti parlavano di un gran banchetto.
Non mi ricordo la data precisa
che consumarono il pranzo in tal guisa,
né sono in grado di dirvi gli orari
che cenaron tutti da Rossel-Ferrari.
E questo pranzo fu in occasione
che l’illustrissimo signor Falcone
mandato fu dal signor prefetto
alla verifica dei conti a Vetto.
Certo dei conti municipali,
che non pensiate, amici cari,
che fossero i conti degli invitati;
di questi ne parliamo in altri dati.
Segue la descrizione di un lungo elenco di invitati, sui quali Luigi calca la mano trattandoli da bifolchi e ingordi. C’è anche una spedizione a Reggio per reclutare le donnine, alle quali non resta che accontentarsi degli avanzi della cena. E come erano le signore reclutate?
Una era mamma, l’altra era nonna,
tutte sdentate erano insomma.
E arriva la sorpresa finale:
Cari signori, siete pregati,
se a quel banchetto ci siete stati,
ognun di pagare per quella mensa
quarantadue lire e centesimi trenta.
CURIOSITÀ
I SULDÂ DAL BÈCH AD LÈGN
L’avete mai sentita questa battuta? Eppure era frequente in passato. Forse perché noi eravamo a ridosso del confine tra i ducati di Modena e Parma, e qui i gendarmi avevano più da fare. C’erano i contrabbandieri, c’erano i poveri che si arrangiavano come potevano, c’erano anche i carbonari. E per mantenere un ordine pubblico almeno apparente occorrevano i soldati. Che da noi, all’epoca, erano appunto chiamati: I suldâ dal bèch ad lègn. Per inseguire un tipo sospetto dovevano rincorrerlo. Ma questi, oltre ad essere pratici dei sentieri, sapevano che bastava scavalcare il Tassobio e la giurisdizione dei soldati cessava. E allora, dall’altra parte del torrente potevano anche permettersi di fare gli sberleffi. Mi sono lambiccato molto per capire il significato della espressione. Il piccolo esercito del Duca di Modena e Reggio aveva sulla giubba un distintivo di legno lavorato. Si trattava di un simbolo a forma di triangolo, forse un giglio. E nell’intenzione di chi lo aveva progettato doveva essere d’oro. Ma l’oro costa, e allora lo si dipingeva di giallo. Lasciamo ora fare alla fantasia del popolino e il regale giglio diventa un volgare becco d’oca, ma di legno.
MEDICINA EMPIRICA
LA S-CIARÌA
(o menta sclarea)
Da noi si usava come antitarmico per gli abiti. Se ne mettevano dei rametti negli armadi e nelle casse, specialmente quando si effettuava il cambio stagionale. Nell’industria alimentare si usa per aromatizzare aceto, birra, liquori. Dà loro anche proprietà digestive. È utilizzata anche in profumeria. Ha proprietà disinfettanti, lenitive, antinfiammatorie delle gengive ulcerate. I preparati di sclarèa sono stimolanti della digestione, balsamici e anticatarrali.
ERBE, PIANTE E FRUTTA ANTICA NEL COMUNE DI CARPINETI – Scuole Medie 2002/2003, pg. 32.
GIOCHI
LA BÒCIA D’ FÈR
Questo era un gioco da grandi. Lo si poteva vedere la domenica dopo pranzo. I concorrenti si incontravano in un determinato punto e sceglievano il percorso da coprire. Di solito si trattava di un percorso in piano o in leggera salita, con difficoltà di tracciato (cunette, curve). Si accordavano per il turno in successione, poi il primo partiva. E a questo punto ognuno sceglieva la strategia da seguire. Era importante sapere individuare la curvatura e l’effetto da imprimere alla boccia per ottenere un tratto lungo. Chiaramente vinceva chi riusciva a compiere il tratto previsto con il minor numero di lanci. Nel 1947 era famoso lo zio Delfo che riusciva sempre a vincere nel tratto di strada tra la casa di Natale e la Maestà. Allora la strada era più stretta, potremmo dire dissestata, con fossi e sassi sporgenti e gli argini sporchi. Ed era su questo trucco che Delfo impostava la vittoria. Aveva scoperto che sotto un grosso cespo d’erba, vicino ad una curva, c’era nascosta una pietra, una piàgna. Riusciva a fare rimbalzare la boccia su quella pietra e imprimere alla boccia una curva che lo avvantaggiava di un tiro.
VENTESIMA SETTIMANA
13 – 19 Maggio
Primavera vien danzando,
vien danzando alla tua porta.
Sai tu dirmi che ti porta?
Questo frammento di Angiolo Silvio Novaro ci riporta indietro nel tempo, a quando cominciavamo ad aprire gli occhi e la mente grazie alla scuola e ad imparare le poesiole che ci facevano fare così bella figura di fronte ai familiari. Logico che ad una domanda simile bisognava rispondere: fiori, brezza, uccelli festanti, volontà di studiare, e tante altre cose belle.
L’Ascensione (che quest’anno abbiamo festeggiato il 12 Maggio) era un punto di riferimento per il contadino in quanto, capitando intorno alla metà del mese, doveva evidenziare i progressi dei prodotti della campagna, dal fieno al grano, agli alberi da frutta. Ritorna, insistente, il richiamo alla pioggia, considerata dannosa.
S’a piöv per l’Asénsia
al furmênt al pêrd la smênta.
Abbiamo anche un’altra versione, perché i proverbi, come i canti, si adattano a luoghi e a persone, e ognuno produce il proprio:
S’a piöv per l’Asensiûn
t’ pêrd la ‘mbrènda e la clasiûn.
A Modena sono più concreti :
Per L’Asensiòun
a n’ duvrèv piòver gnân l’òli bòun.
Dicono che un poco di ironia non guasta, anche se si tratta di cose scontate:
S’a piöv per sant Ubâld (16 Maggio )
a fa pu’ frèd che câld.
Oltre ai proverbi che interessano i fenomeni meteorologici ce ne sono tanti che riguardano il comportamento, l’impegno, il senso pratico della vita. Un tema sicuramente dibattuto, ma senza soluzioni concrete, è quello della giustizia. Come dire, amaramente, che in questo mondo la giustizia non esiste. Poi seguono altre constatazioni:
Quattrini ed amicizia
valgon più della giustizia.
Cûn i sôd e l’amicìsia
la s’ fà in bârba a la giustìsia.
Chi lavora mangia:
chi non lavora mangia e beve.
AL BÊN
Ritengo interessante riportare una preghiera in dialetto, ma, come si dice, d’autore, cioè non di dominio pubblico. Si tratta di un testo rifatto a proprio uso e consumo su una preghiera popolare, che diventa una delicata preghiera alla Madonna di Bismantova. L’autore è quel Jàcme da la Cêša, che abbiamo già incontrato quando parlavamo di satire.
MADUNÎNA, ME I’ GNIRÊ
Madunîna, me i’ gnirê
a inšnuciân ai vòster pê,
ma un pcadûr cùma i’ sûn mè
a n’ pöl che piànšer e pregâr
per la nòta e pr’ al dé.
Madunîna, che sùt la crûš
i’ haî padî al pêni d’ Nòster Sgnûr,
al dé ch’a v’é d’aîš
fêm ciamâr in Paradîš,
a cantâr agli urasiûn
cmé, pr’amûr e caritâ,
i’ haî fat ciamâr al bûn ladrûn.
I’ la dirò a la sîra e a la matîna
pr’amûr d’ la Madunîna.
Ogni dé i’ la dirò
e la mi’ ànma i’ salvarò.
FILASTROCCA
Alcuni componimenti confezionati per i piccoli cercano di adeguarsi alla loro mentalità, al loro modo di ragionare. Risultano spesso incoerenti, o confusionari. Hanno però il merito di stimolare la fantasia dei piccoli e aiutarli a crescere.
PÊDER JÀCME
Ûn e dû e trî e quàter,
la mujêra d’ Pêder Jàcme.
Pêder Jàcme al va al mulîn
cun un sàch ed furmentîn,
e ‘l dumànda a la munâra
quanti pân ghe vegnerà.
“Ûn e dû e trî e quàter,
sèt e òt e vintiquàter
vintiquàtr’ e vintisînch,
sèt e òt e növ e vînt.
Fêgh mo’ ‘l cûnt!”.
Beh, bisogna dire che di pani ce ne scappava una buona sfornata e che la famigliola, con 142 micche, ci andava avanti per un bel po’.
Esiste anche una variante:
Pêder Jàcme al va al mulîn,
tîra la cùa al cagnulîn.
Cagnulîn ‘l fa Bàu, bàu,
e la gàta miào, miào,
pulicîn fa pio pio.
Ti saluto caro mio.
INDOVINELLO
Lunga, lungàgna,
la gh’ha i dênt a-cme ‘na càgna,
ma una càgna lê la n’l’é.
Induvina cuša l’é.
(Razza, rovo).
POESIA
QUAND A M’ SUVÊN
di Savino Rabotti
Un cêrs ad ragasö, là, in mèš a l’âra
ch’i’ s’ mövne cme föjtîni d’ margherìta;
in mèš a tú-c a gh’é ‘na pîna drìta,
ch’ la pârla, ma un pô pêrsa, un pô indecîša.
La gh’ha i cavî biundîn, carnagiûn ciâra,
i’ ò-c celèst, ‘na vestîna d’ föji d’ röša.
”Lungo la strada
che porta alla contrada
passan tre fanti
su tre cavalli bianchi…”
E me, ch’i’ êra un frušìi âlt una spàna,
cun ‘l brâghi cûrti e i sòcle arampinâ,
i’ m’ fermêva a pensâr: “Sperèm ch’ la m’ ciàma!”,
e sentèndem tucâr da cla manîna
a m’ parîva d’ sentêr cùma ‘na fiàma
ch’ la m’ lasêva de stúch, tút incantâ.
« … e tu, gentil messere,
sarai mio cavaliere » !
… e via, in gròpa a ûn d’ chi cavàj biânch,
per purtâla luntân, luntân, luntân…
Lê la m’ brasêva cun túti dû ‘l mân,
cuciâda, strìca strìca, lì, al mi’ fiânch…
e i’ vulêvne vers un mund dai castê d’ôr,
cun múšica e giardîn stracûlme d’ fiûr.
Un cerchio di bambini in mezzo all’aia che si muovono come petali di margherita. In mezzo a tutti c’è una bimba, dritta, che pronuncia qualcosa, ma un poco smarrita, un poco indecisa. Ha i capelli biondi, il visino chiaro, gli occhi azzurri e un vestitino fatto di petali di rosa. [Rit.] E io che ero un bagaglino alto una spanna, coi pantaloni corti e gli zoccoli rinsecchiti, mi fermavo a pensare: “…speriamo che chiami me!”, poi, sentendomi toccare da quella manina, mi pareva di sentire come una fiamma che mi lasciava di stucco, incantato. [Rit.] … e via, in groppa ad uno di quei cavalli bianchi per portarla lontano, lontano, lontano, … lei mi abbracciava con tutte e due le mani, accucciata, stretta stretta, ai miei fianchi, … e volavamo verso un mondo con castelli d’oro, con musica e giardini stracolmi di fiori.
USANZE
PELLEGRINAGGIO A BISMANTOVA
Non era concepibile che durante il mese di Maggio ogni membro della famiglia non si recasse ad un santuario. Che per noi era Bismantova, la Madunîna d’ la Prêda. Col tempo poi i parroci hanno organizzato pellegrinaggi anche fuori del territorio: in Ghiara a Reggio, a Fontanellato di Parma, a S. Luca di Bologna, e anche altrove.
Quello che però era sentito come un dovere era il pellegrinaggio alla Pietra, da compiere rigorosamente a piedi entro il mese. Di solito le prime a muoversi erano le Mamme, o comunque le donne che avevano la responsabilità della famiglia. Come se volessero dare il buon esempio. Partivano che era ancora notte, in gruppo, per arrivare presto al santuario. Poco dopo il cimitero di Castelnovo cominciavano il Rosario. Giunte al santuario c’era da fare la confessione per poi assistere alla messa e ricevere l’Eucarestia, e, subito dopo la messa ci si avvicinava il più possibile all’immagine della Madonna per le preghiere private, per sé, per i figli, per chi si era raccomandato. I giovani, di solito, preferivano andarci l’ultima domenica del mese. Il tempo era migliore, la temperatura anche. In più, non avendo impegni particolari, potevano trattenersi tutta la giornata, salire sul monte per una allegra scampagnata. Per loro la rešdûra aveva preparato la Brasadèla che si portavano dietro assieme ad un fiaschino di vino preso nel vasèl cìch, cioè di quello migliore. E lassù mangiavano e bevevano, giocavano, tentavano di morosare. Poi, quando il moscatello aveva fatto effetto, si mettevano a cantare, o, perlomeno, ci provavano.
SAGGEZZA ANTICA
NON OMNIS MORIAR. (Orazio – Odi, III, 30, 6).
Di per sé significa: Non morirò completamente. La traduciamo con: Quèl a gh’armàgna sêmper! Va tenuto presente, logicamente, il contesto in cui compare questo mezzo verso. Nell’attacco di quest’ode (Exegi monumentum ære perennius = ho eretto un monumento che durerà più del bronzo) Orazio sente che la propria immortalità sarà legata alla produzione poetica, in particolare ad un canto universale (forse il Carmen sæculare?). Ed è anche la speranza di ognuno di noi potere fare qualcosa che ci faccia sopravvivere nella memoria dei posteri.
SUPERSTIZIONI
Ci sono gesti o lavori che non bisogna fare in determinate giornate, altrimenti porta male. Ad esempio curare i capelli con più attenzione del solito (che poi consisteva nel lavarli, asciugarli al sole e pettinarli), non lo si deve fare il giorno dell’Ascensione:
Chî ch’a s’ pètna ‘l dì d’ l’ Asênsia
per tút l’àn al srà piuciûn.
(Chi cura i capelli il giorno dell’Ascensione per tutto l’anno avrà i pidocchi).
Sono legate all’Ascensione altre superstizioni:
— Tutto ciò che è rimasto esposto nella notte che precede l’Ascensione acquista virtù particolari;
— Il foraggio bagnato con la rugiada di quella notte mantiene sani gli animali che lo mangiano;
— Con la rugiada di quella notte si cura la scabbia;
— La rugiada rende più belle e fortunate le ragazze.
— Se il giorno dell’Ascensione è sereno il raccolto sarà abbondante; se è nuvoloso il raccolto sarà mediocre; se piove sarà pessimo.
SATIRA
LA BENEDIZIONE PASQUALE
Ritorniamo un attimo su Isaia Zanetti per un componimento che sorprende un tantino. Conoscendo quello che pensava dei preti, del suo parroco, lascia un po’ perplessi un argomento del genere. Ma c’è una spiegazione. Intanto accetta che il parroco vada a benedire la casa ma lui decide di non essere presente. Inoltre la metrica è diversa da tutte le satire di Isaia. Quasi sicuramente l’invito per la benedizione don Zini lo aveva scritto in rima e ad essa Isaia risponde con la stessa metrica e per di più in italiano, anche se stentato.
Egregio Signor Priore,
gentilmente le chiedo un favore:
dalla sua mano sarà benedito
anche la casa di questo romito.
La porta è aperta, ma Isaia
per fatti urgenti è dovuto andar via.
Desidero e voglio la benedizione
e che sia fatta con devozione.
Ma niente uova: ho poche galline;
ma è meglio venderle che darle a Don Zini.
Perché Zini il signor Don Battista
è iscritto in ruolo capitalista.
Ha due mezzadri e in più ha la chiesa;
delle mie miserie lui se ne frega.
Io faccio le rime, non faccio l’amore.
Buongiorno e grazie, Signor Priore.
CURIOSITÀ
La pubblicità è l’anima del commercio. E questo è accertato anche per il passato. Quello che sfugge però è il fatto che a dettare gli slogan siano persone illetterate o quasi, che non conoscono la punteggiatura, la grammatica e la sintassi, come nei casi seguenti.
AVVISI DI UN TEMPO
In questo caffé è proibito fumare!
Chi vuol fumare qui tolga il sigaro di bocca!
Si affitta una stanza per un signore di
otto braccia di lunghezza e sei di larghezza!
Si vende un letto per una persona di ferro.
Un cocchiere, al quale sono già morti due padroni,
cerca un padrone simile.
Acqua infallibile per guarire la cecità!
Che nessun cieco passi senza leggere questo avviso!
Qui si vendono guanti per uomo di pelle
e guanti per donne senza dita!
Abitazione della Levatrice N. N.
Per chiamarla suonare il campanello
tutto il giorno e la notte!
MADICINA EMPIRICA
LO STOPPIONE
Strano ma vero. Anche quest’erba infestante, odiata e combattuta con tutti i mezzi, ha le sue qualità terapeutiche. Ricordo con quanta attenzione il nonno cercasse di estirparla dal grano. La loro presenza rovinava il grano e la paglia e dava fastidio a chi lavorava paglia o strame, specialmente dopo che era maturato e cominciava a seccare, perché le foglie hanno punte ad aghi che pungono. Di questo inquilino abusivo e odiato si potevano utilizzare sia le radici che le foglie per fare infusi capaci di facilitare il processo digestivo, la diuresi e la sudorazione.
ERBE, PIANTE E FRUTTA ANTICA NEL COMUNE DI CARPINETI – Scuole Medie 2002/2003, pg. 44.
GIOCHI
CALCIO? CIRCA!
Con tutto il fervore di innovazioni seguito al dopoguerra ci fu anche quello di giocare a calcio. Ma il problema era che non avevamo un pallone e non conoscevamo le regole. Quanto a queste non era un problema: le inventavamo di volta in volta. Il problema del pallone invece si mostrò invalicabile. Finché c’era una palla ci si arrangiava. Dopo la scuola veniva istintivo buttare le cartelle sopra un argine e prendere a calci qualcosa che capitava tra i piedi. Prima arrotolavamo dell’erba e la legavamo con steli o scorze d’albero. Poi ad un nostro compagno venne l’idea di portarsi da casa una tasca recuperata da un paio di pantaloni disfatto. La riempivamo di foglie verdi poi via. Ci sembrava d’avere raggiunto il top. E c’era già chi si dava arie da intenditore. Per esempio nel tirare le punizioni all’americana. Ma non sapeva che il calcio in America non esisteva e soprattutto non si giocava come da noi.