“Nuièter ch’ì parlema ancùra in dialèt” Quinta puntata in onda il venerdì alle ore 17,30 ASCOLTA I FILE IN ANTEPRIMA
15 Marzo 2013
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NONA SETTIMANA
24 Febbr. – 2 Marzo 2013
Febbraio volge al termine. È il mese più corto, ma non il più simpatico, visto il suo umore (nella mentalità di un tempo Febbraio significava = portatore di febbri, o malattia). Per fortuna che di ventotto giorni ce n’è solo uno. Infatti ha la cattiva abitudine di dare i suoi colpi di coda, anche se la primavera è ormai nell’aria. In campagna restano (restavano) da concludere le ultime potature e la raccolta dei tralci. Fra poco l’erba comincia a crescere e dopo ci sarebbero problemi a rintracciare quei tralci. E avrebbero potuto danneggiare la falce al momento di tagliare il fieno.
PROVERBI
Dice la vite al contadino:
Fàm purèta ch’i’ t’ faró sgnûr.
Una potatura drastica costringe la vita a lavorare coi tralci più produttivi. A produrre fogliame ci penserà il tempo. Febbraio, lo abbiamo visto, non è molto benvoluto. Tuttavia una tardiva nevicata, alla fine, può anche tornare vantaggiosa:
Nêva d’ Fervâr,
mèš aldamâr.
AL BÊN
La devozione verso l’Angelo custode era molto sentita un tempo. Oltre a proteggere l’anima ci guardava anche dai pericoli materiali. E soprattutto dalla morte improvvisa.
L’ANGELO CUSTODE
Valle del Rossenna
Angiulîn ad Nòster Sgnòur
ch’i stê lì pär guardadòur, (guardiano)
guardê me finalméint
ch’i n’ pèca murtalméint.
Ad dì e ad nòta
dêm la bòuna nòta,
dêm un bòun avîš
ch’i’ n’ mōra a l’impruvîš.
FILASTROCCA
LUMAGHÎNA, LUMAGÒT
Lumaghîna, lumagòt
tîra föra i tö curnèt
ûn per te, ûn per me,
ûn per chi êter e ûn pr’al re,
e s’a t’avânsa ûn
mètel via pra st’avtûn.
Lumagnîna, lumaghîna,
la va piân la bestiulîna
la va piân pra n’ rûmpse i’ òs,
la su’ ca’ la gh’ l’ha sêmpr’ adòs,
e la dîš che int l’andâr piân
a s’ va fôrt e a s’ va luntân.
INDOVINELLO
Dû spunciûn, dû lušûr,
quàter stànghi e un spasadûr.
(Due corna, due occhi, quattro gambe u una coda)
(La mucca).
POESIA
Enrico IV° sta tentando in tutti i modi di vendicare l’umiliazione subita a Canossa, ed è entrato in Italia con un forte esercito. Nel 1092 Matilde di nuovo si è rifugiata a Carpineti assieme ad una assemblea di vescovi alleati, e sta decidendo di arrendersi. Gli alleati sono ormai abbattuti e la sfiducia regna sovrana. Si cerca di fissare le condizioni per la resa. Ma un semplice fraticello, l’eremita Giovanni da Marola, (fino ad allora tacito e schivo), prende la parola e sprona con tanta efficacia gli alleati di Matilde a difendersi da Enrico. Alla fine l’assemblea decide di riprendere le armi. E riusciranno a sconfiggere definitivamente Enrico.
UN PÔ D’ RESPÎR
Iª al Carpineti 2007
La Cuntèsa l’ê stúfa d’ascultâr
un mú-c ad ciàc-ri sênsa cunclušiûn,
e la decìd d’andâr a pasegiâr
un brišîn sûra l’àndit d’i bastiûn.
Una bucâda d’ària, un rà-g ad lûš
ch’ al s-ciarìsa i pensêr, ch’al mèta in piàsa
cúša i’ scundi i ragiunamênt cunfûš
d’ cla gênta ingûrda, frèda cmé la giàsa.
Al föji urmai al gh’hân al clûr d’ la rúšna;
la nebiulîna la pròvoca i šgrišûr!
Ma ‘l sûl l’indôra la sìma dal Cúšna,
biânca d’ nêva. E ‘l Ventàs, da grân signûr,
al dîš ‘na parulîna ânch a la Prêda
ch’ l’ê adrê apišlîâs int l’ùmbra, apatarâda,
silensiûša, cmé sémper, e discreta,
spetànd ch’ariva ‘na bèla giurnâda.
Una penlâda d’ biânch, là, vers matîna,
l’è ‘l sìgn ch’arivarà ‘n’alba ragiânta.
Matilde la cuntêmpla, e … l’induvina
ch’ la srà dabûn una dâta impurtânta.
La dà ‘n’uciâda in gîr, pianîn pianîn,
pr’arcatâr tú-c i’ amîgh d’la giuventú:
i mûnt in cêrs ch’i’ fûrmi l’Apenîn,
i paišîn, al valâdi, e, là, pu’ sú,
cla grân vôlta celesta ch’ cambia clûr.
E un pensêr ch’al martèla: “Perché mai
bšúgna cumbàtse? Per fermâr i guài
a bastarê vrês bên, mèter l’amûr
a càp ad túti quanti ‘l discusiûn,
lasâr pêrder la guèra e la vendèta,
druvâr, al post d’ la spâda, la ragiûn
e la pròpia upiniûn dîla šù s-cèta”.
A bastarê… Ma i’ òmi i gh’hân per vìsi
da n’ dâr amênt ai sêvi, e gnân a la storia,
e invêci d’imparâr, d’avêr giudìsi,
‘rvinâr la sucietâ la dvènta gloria!
UN ATTIMO DI PAUSA – 2007 – La Contessa è stanca di ascoltare un mucchio di chiacchiere senza conclusioni, e decide di uscire a passeggiare un poco sul corridoio dei bastioni. Una boccata d’aria, un raggio di luce che illumini i pensieri e metta allo scoperto cosa nascondono i ragionamenti confusi di quella gente ingorda, gelida come il ghiaccio. Le foglie hanno il colore della ruggine, la nebbiolina fa venire i brividi! Ma il sole indora la cima del Cusna bianca di neve fresca, e il Ventasso, da gran signore, sussurra una parolina pure alla Pietra che si sta appisolando nell’ombra, accovacciata, silenziosa, come sempre, e discreta, mentre attende una splendida giornata. Una pennellata di bianco là verso levante presagisce un’alba raggiante. Matilde la contempla e… comprende che davvero sarà una data importante. Gira lo sguardo intorno, pian pianino, per riconoscere tutti gli amici della gioventù: i monti in cerchio che formano l’Appennino, le borgate, le valli, e là, più su, quella grande volta celeste che muta colore. E un pensiero si fa insistente: perché mai ci si deve combattere? Per arrestare i guai basterebbe volersi bene, mettere l’amore a capo di tutte le discussioni, lasciare perdere le guerre e le vendette, usare, al posto della spada, la ragione e dire schiettamente la propria opinione. Basterebbe! Ma gli uomini hanno il vizio di non ascoltare i saggi, e nemmeno la storia, e invece di ammaestrarsi, di usare il giudizio, reputano gloria mandare in rovina la società!
SAGGEZZA ANTICA
AD MAJÒRA
Alla lettera: Che tu possa raggiungere traguardi ancora più importanti. È una formula d’augurio verso chi ha conseguito un’affermazione, per auspicargli ulteriori successi o risultati.
SUPERSTIZIONI
ANIMALI DI BUON AUGURIO
Le rondini vengono definite le gallinelle della Madonna. Perciò guai fare loro del male. Se poi scelgono una casa per farvi il nido quella casa è benedetta:
Biâda a cla cà
indùa la rundanîna la gh’ fa.
[Beata la casa ove la rondine nidifica].
Anche scorgere un ragno bianco porta fortuna. Come pure la mosca d’oro, le coccinelle, o la lucertola con coda biforcuta. Un grosso moscone che ronza intorno al mattino indica posta o buone notizie in arrivo; al pomeriggio cattive notizie o sfortuna.
SATIRE
Le satire venivano diffuse senza tante pretese, senza etichette, alla buona. E chi riusciva a memorizzarle ricordava la sequenza dei concetti, la vivacità delle battute, ma non il titolo. Nel ricostruirle spesso il titolo lo abbiamo dato noi. Un testo di Isaia Zanetti che ha fatto epoca lo abbiamo intitolato
LE SCARPE DEL PODESTÀ MANFREDI
In famiglia Isaia ha avuto problemi di comprensione. Abbiamo già visto che il padre, severo e all’antica, non ammetteva repliche e non vedeva altre aspirazioni oltre il lavoro dei campi. Isaia allora si sfogava con le satire. Le tesi dominanti della poetica di Isaia sembrano essere queste:
l’autorità costituita va combattuta con ogni mezzo (anche illegale!), perché rappresenta la prepotenza e l’abuso;
lavoratori sono solo i contadini e gli operai; gli altri (professionisti, impiegati, studenti) altro non sono che parassiti perditempo;
il contadino è per definizione povero. Può avere cento capi di bestiame, guadagnare soldi a palate col latte al casello, possedere appartamenti, ma è sempre un povero per il semplice fatto che deve lavorare.
Nel componimento che vediamo oggi, Isaia narra di un losco affare perpetrato dal podestà ai danni dei poveri cittadini. Stando al testo il podestà avrebbe fatto incetta di scarpe sottratte ai caduti in guerra per poi distribuirle ai contadini, scarpe non controllate, magari infette. L’accusa trova facile esca in quanto, all’epoca, imperversava il mercato nero. Ma ho potuto intervistare due persone che conoscevano il fatto (una di queste ha partecipato all’operazione) e che hanno testimoniato a favore del podestà: l’operazione scarpe usate fu realizzata per i poveri del comune a rischio della vita di chi, nottetempo, si recava oltre il fronte per recuperare il materiale da distribuire gratis. Anzi, pare che anche Isaia ne avesse avuto un paio. Siccome non figurarono bene, ecco la vendetta, che in alcuni passaggi raggiunge l’imprecazione e lo spergiuro.
Descrizione delle scarpe:
Túti spôrchi, tmarulâdi,
ch’a n’ se sa chi a gli ha purtâdi…
… ch’a li dàga ai sö cliênt
ch’ a gli ên savàt búni da gnênt.
[Tutte sporche, rappezzate /che non si sa chi le abbia portate / che le dia ai suoi clienti / che sono ciabatte per nulla buone].
Ecco invece l’invettiva contro il podestà:
Bârba grîša d’un cretîn,
li vöt dâr ai cuntadîn?
Dio te fùlmina int la vista,
tînli e dàli ai tö fasista!
Perché i’ n’ gh’èm gnân da tribulâr
a s’ vöt gnîr anch a impestâr?
[Barba grigia di un cretino, / le vuoi dare ai contadini? / Dio ti fulmini nella vista / tienile e dalle ai tuoi fascisti! / Già che non abbiamo abbastanza da tribolare / vuoi anche venire ad infettarci?]
Per poi arrivare alla sferzata finale, di sapore prettamente propagandistico:
Custa chì l’è l’ugualiânsa,
la civiltâ e la fratelânsa,
a la moda d’j italiân:
i purèt tratâi da cân!
[Questa è l’uguaglianza, / la civiltà e la fratellanza, / alla maniera degli italiani: / i poveri trattarli come cani!]
CURIOSITÀ
Ascoltatori, drizzate bene le orecchie. Oggi vi racconto una usanza ancora viva quando ero ragazzo io, e che riguarda il primo giorno di Marzo. Non so se avesse un fondamento scientifico o se fosse un rito precristiano sopravvissuto nei secoli. Sta di fatto che la sera dell’ultimo di febbraio il più anziano di casa diceva ai piccoli che il mattino seguente bisognava alzarsi prima del sole e salire sull’altura dietro casa ad aspettare che il sole sorgesse. E lì bisognava stare molto attenti. Quando all’orizzonte compariva il primo spicchio di sole dovevamo calare i pantaloncini e mostrare le natiche al sole recitando questa formula:
Mârs, Marsòt,
tìnšme al cûl, làsme stâr i’ ò-c.
Questa usanza l’ho ritrovata nel modenese e in Romagna con leggere differenze. A Modena si diceva:
Mêrs, Merzàs,
ténšme al cûl e brîša i mustàz. ,
mentre in Romagna:
Sol de Merz
cùšme el cul e non cùšr’ étar.
Sole di Marzo, cuocimi il sedere ma niente altro.
Come dire: non danneggiare il cervello.
Non vi so dire se era un modo per testare l’intelligenza e la sagacia dei piccoli o se anche i vecchi ci credevano. Io non mi sono mai svegliato in tempo per salire sul Martino a celebrare il rito. Che sia per quello che adesso la mia vista ha qualche problemino?
MEDICINA EMPIRICA
Per fare sparire quelle piccole escrescenze chiamate porri, presenti più spesso sulle mani, si ricorreva al lattice delle foglie di fico.
Per far maturare il catarro e ripulire i polmoni si usavano diversi infusi come quelli delle foglie del Plantago minor, volgarmente detta lingua di cane. [Bertani]
Le radici del frumento del diavolo (orzo selvatico; Hordeum murinum) bollite producevano un ottimo emolliente. Le stesse foglie ancora tenere aiutavano i cani a liberare lo stomaco imbarazzato. [Bertani]
Per le bronchiti, specialmente quando il catarro era abbondante e la tosse forte, (il così detto Casûn), si poneva un mattone sulle braci fino a quando non si era arroventato, poi lo si fasciava con stracci e si poneva l’involucro sullo stomaco dell’ammalato.
DECIMA SETTIMANA
3– 10 Marzo 2013
Il mese di Marzo deve il proprio nome al dio latino Marte. Mènsis Martius significa appunto: mese dedicato a Marte. Ma c’è una sfumatura da tenere presente. Marte era, si, il dio della guerra particolarmente venerato dai romani per le loro conquiste. Ma era anche il dio della rinascita, del risveglio della natura. Per questo gli dedicarono il mese della Primavera. All’inizio della storia di Roma non c’era un vero calendario. Fu Numa Pompilio a mettere un pochino di ordine. L’anno romano inizialmente era di dieci mesi e i calcoli non potevano essere che approssimativi. Non era possibile calcolare anche i minuti di differenza tra il ciclo solare e quello lunare. Col tempo si sono accumulate giornate di differenza tra i cicli reali e la data in cui avrebbe dovuto verificarsi un determinato fenomeno. Intorno al 152 a. C. fu necessario ricalcolare completamente il calendario. In quell’occasione furono aggiunti due mesi (Gennaio e Febbraio) e collocati prima di Marzo. Per la storia anche quella volta sfuggirono alcuni minuti. A rimettere a posto le date e gli orari ci pensò Giulio Cesare nel 46 a. C. che stabilì di aggiungere un giorno a Febbraio ogni 4 anni (bisestile). Ma ancora una volta sfuggirono al conteggio 11 minuti e 12 secondi. L’ultima riforma, ancora in vigore, la fece Papa Gregorio XIII° nel 1582.
PROVERBI
C’è nell’aria il profumo e il tepore del risveglio:
Vento di Marzo:
odor di Primavera.
Ma c’è pure un altro adagio: Marzo pazzerello. Per cui conviene essere prudenti, ma senza disperare, perché
La nêva marsulîna
la dûra da la sîra a la matîna.
Qualcuno arriva anche all’irriverenza:
Cul ch’ l’ha mìs Mârs in primavêra
a n’ sajîva cùša ‘l fêva.
AL BÊN
Oltre al dialetto alcune volte nelle preghiere sopravvive un facsimile di latino, avulso dal contesto e dalle regole di grammatica.
ORA VADO A LETTO
Val Rossenna
Adès a m’in vagh a lèt
cum Dominum m’aspèt,
cum Dominum magiûr
cum Crést Salvatûr.
Madonîna, i sî pür bèla
Cuma un fiûr dal nostr’amûr;
dunêmen tänt, ch’a m’ sia davîš
d’êser vòsch in Paradîš.
In Paradîš gh’é bèli côš,
chî gh’ va e’ gh’ ripôša;
a l’infêrne a gh’é brúta gênta:
chî gh’ va e’ gh’ brûša séimper.
FILASTROCCA
RUNDANÎNA
Rundanîna vên a bàs,
prêga Dio ch’a vègna un squàs,
prêga Dio ch’al vègna prèst:
guârdel là ch’al vên adès.
INDOVINELLO
Šù i’ t’al dìgh e šù t’al sê.
S’i’ n’ tal dìgh a t’ n’al sarê.
(Giogo).
POESIA
Questa è, in qualche modo, la rielaborazione della filastrocca sentita poco fa.
RUNDANÎNA D’ NÒSTER SGNÛR
di Savino Rabotti
Rundanîna d’ Nòster Sgnûr,
tûrna prèst ch’a spûnta ‘l sûl!
Rundanîna pelegrîna,
Primavêra la s’avšîna!
Quand t’artûrne a ste paêš
fàm sentêr la tu’ cantâda
che int l’invêrne i’ l’ho scurdâda.
Fàm vultâr la testa al cêl
quand a t’ vûl in tund in tund;
fàm turnâr la frenešìa
dentr’ al vêni, e vèdre al mund
cun ‘na brîšla d’ fantasìa.
Quand t’arvên da la Riviêra
töt adrê ‘na carga d’ pâš.
Cun al sûl d’ la primavêra
dàs la vöja d’abrasâs;
fàs guardâr al cêl a-srên,
dàs la vöja d’ vrêres bên.
Te, che t’ vûl da càp a fund,
fa savêr ai nostr’ amîgh,
ai pu‘ šùvne, a chi pu‘ antîgh,
che ‘l pu‘ bel paêš dal mund
l’é cuschì, e mìa tgnîl ben,
sensa lîti e sensa vlén.
Chì a gh’é l’aria ciâra e pûra,
l’aqua frèsca, ancùr genuîna,
vêrd i bosch e vêrd i prâ
cun un mú-c da sfumadûri
e i fiûr d’ùgni qualitâ
da Fervâr fîn a Nadâl.
Rundanîna d’ Nòster Sgnûr,
fêrmte ché, n’artör al vûl!
Rondinella del Signore, torna presto che spunta il sole. Rondinella pellegrina, Primavera è ormai vicina. Quando ritorni a questo paese fammi risentire la tua canzone perché d’inverno l’ho scordata. Fammi sollevare la testa verso il cielo, mentre voli tutto intorno, fammi ritornare la frenesia nelle vene, e vedere il mondo con un poco di fantasia. Quando ritorni dalla Riviera prendi con te una carica di pace: con il sole di Primavera dacci la voglia di riabbracciaci, facci vedere il cielo sereno, dacci la voglia di volerci bene. Tu che voli da un capo all’altro, fa sapere ai nostri amici, ai più giovani, a quelli antichi, che il più bel paese del mondo è questo e bisogna conservarlo bene, senza litigi e senza veleni. Qui c’è l’aria chiara e pura, l’acqua fresca, ancor genuina, verdi i boschi, verdi i prati con un gran numero di sfumature, e fiori d’ogni specie da Febbraio fino a Natale. Rondinella del Signore, fermati qua … non riprendere il volo.
SAGGEZZA ANTICA
DEUS EX MACHINA
Si usa questa espressione quando un problema viene risolto da una persona o da un evento esterno, non legato al problema. Nelle tragedie antiche, dopo l’enunciazione dei problemi legati all’esistenza e l’impossibilità di risolverli con mezzi umani, scendeva un dio dal cielo che sbrogliava la situazione. L’attore che impersonava il dio veniva calato nella scena mediante un macchinario. Da qui l’espressione latina: il dio che arriva dalla macchina. In politica la frase assume altre sfumature, per indicare coloro che mescolano le carte, trovano sotterfugi a proprio vantaggio.
SUPERSTIZIONI
CONSTATAZIONI
Se fischia l’orecchio destro sono chiacchiere o calunnie; se fischia il sinistro sono elogi:
S’a fìs-cia l’urècia drìta
paròla mal dìta;
s’a fìs-cia l’urècia stânca,
paròla frânca!
Se l’occhio destro si chiude come se avesse un tic significa cuore afflitto; se batte il sinistro indica cuore tranquillo:
S’a bàt l’ò-c drìt,
cör aflìt;
s’a bàt l’ò-c stânch,
cör frânch.
SATIRE
Isaia possiede tutte le qualità del satiraio: concisione nella descrizione del personaggio, metafore e paragoni calzanti ed efficaci; il personaggio viene ridicolizzato con battute caustiche. In primo luogo se la prende col proprio paese, i suoi abitanti e soprattutto il parroco:
Vilabêrs l’ê ‘na paròchia,
cùma i dîši, bên cumpòsta,
un pô chêta, bên unîda,
cun d’la grân gênta istruîda.
A gh’è di fûrb e dj’ istruî,
dj’ignurânt e d’imbambî,
a gh’n’é di sêvi e ânch di màt,
e pu’ a gh’é anch d’i pajàs.
Don Batista, (ch’al srê il càp)
lû l’è ‘l re d’ tú-c i pajàs.
Al fa sémper dal pensâd
da far rìdr’ e spajasâr.
Villaberza è una parrocchia come dicono ben composta: abbastanza tranquilla, molto unita, con tanta gente istruita. Vi sono dei furbi e persone colte, ignoranti e rimbambiti. Vi sono dei saggi e dei matti e poi anche dei pagliacci. Don Battista, che sarebbe il capo, è il re di tutti i pagliacci. Ha sempre delle trovate da fare spanciare dalle risa.
Ecco come descrive Ricûn, un bersaglio frequente di Isaia:
“S’jìsve vìst a-ste Ricûn
cun dû ò-c da berluscûn,
cun al scàrpi bšúnti ai pê
che túti ‘l musch gh’andévne adré;
cun ‘l giubèt a-psâ int la schêna
cun dal pèsi clûr d’ la jêna,
tút a-spôrch, intabacâ
tút a-šbrùdghe, insurnaciâ
che anch lašù a Funtanlâ
il ciamêvne “Al mâl lavâ“!”.
Se aveste visto questo Enricone, con due occhi da strabico; con ai piedi scarpe cosi ingrassate che tutte le mosche lo seguivano; con la giacca pezzata nella schiena con toppe del colore della iena [tigre]; tutto sporco, intabaccato, tutto lercio, smoccolato, che anche laggiù a Fontanellato lo chiamavano “Il mal lavato”.
E poco più avanti, a sottolineare l’inopportunità di certi interventi:
“Dòp a salta sú Ricûn
che d’ tašêr al n’è mai bûn..”.
( ‘Poi salta su Enricone / che non è mai capace di tacere)
CURIOSITÀ
ANDARE A CANOSSA
È diventato ormai un modo di dire per indicare una sconfitta, una ammissione di colpa. Ci si riferisce all’episodio che vide Enrico IV° chiedere perdono al papa, Gregorio VII°, e aspettare fuori dal castello tre giorni e tre notti. Il fatto non fu mai digerito, ed Enrico IV° tentò a più riprese di vendicarsi con le armi. Nel 1081 privò Matilde di tutti i suoi diritti. Ma alla fine dovette arrendersi. La frase però è più recente. Viene attribuita al presidente della Iª Repubblica Spagnola Emilio Castellar y Ripoll (07-09-1832 / 25-05-1899, presid. della repubblica dal 07-09-1873 al 03-01-1874) in risposta ad una missiva di Bismarck: Anche voi andrete a Canossa. Ma pare che la medesima frase, al negativo, l’abbia usata lo stesso Bismarck durante il conflitto tra il II° Reich e la Chiesa Cattolica (Noi non andremo a Canossa).
MEDICINA EMPIRICA
Lo sapete cosa sono i “rospetti”? Oggi forse non li chiamano più così. Erano piccole escrescenze che crescevano al lato della lingua. Si tratta di una suppurazione infetta. Ma soprattutto dava molto fastidio. Strano ma vero anche qui i nostri vecchi avevano un rimedio empirico. Chi era tormentato da questo disagio doveva leccare (letteralmente) i capelli di una bimba bionda di pochissimi anni (3 o 4), massaggiando per bene la parte infetta sui capelli della piccola.
GIOCHI
LA GIARÈLA
Dovrebbe trattarsi di uno dei giochi più vecchi del mondo se è vero che nella tomba di una bimba egiziana del terzo millennio avanti Cristo sono stati trovati cinque dadi che fanno pensare ai sassolini usati per la nostra giarèla. E’ sicuro comunque che il gioco è presente in tutto il mondo anche se si utilizzano materiali diversi. Oltre ai sassolini di fiume (le Giarèli, appunto) vengono utilizzati noccioli di mandorla, di albicocca, di pesca, galle di quercia (gurgàli), dadi preparati apposta.
Si pongono cinque sassolini su un piano, discosti ma non lontani tra di loro, poi, a volte recitando una formula, a volte in silenzio, se ne prende uno e lo si lancia in alto a media altezza, si raccoglie il secondo e si gira la mano per prendere quello che sta scendendo. Si ripete il gesto con due, poi con tre e così via fino a contenerli tutti e cinque nel cavo della mano. I più virtuosi provano anche a lanciarli tutti a breve altezza poi riprenderli sul dorso della mano aperta. Era uno dei tanti test di abilità, preferito dalle bambine.